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26 giugno 2009

Andrea De Benedetti, Val più la pratica


Val più la pratica è questa l’indicazione che ci vuole fornire Andrea De Benedetti, nato a Torino nel 1970, giornalista, scrittore e docente a contratto, Autore di questo testo pubblicato dalla Laterza, che come indica l’Autore stesso nel sottotitolo, tratta una piccola grammatica immorale della lingua italiana.

http://www.laterza.it/immagini/copertine/9788842089292.jpg   Studioso della nostra lingua, poiché l’ha insegnata per molti anni agli spagnoli nell’Università di Granada, oltre ad aver fornito il suo punto di vista sul linguaggio dei titoli di giornale, con la pubblicazione di L’informazione liofilizzata, per Franco Casati [Firenze 2004], ci vuole incuriosire pagina dopo pagina, con questa sua digressione “anticonformista” sulla nostra grammatica, considerato da molti un argomento da prendere con le pinze.
   Scorrendo le sue pagine, De Benedetti può anche dare l’impressione di “narrare” il suo testo, immaginandolo “nel centro di un palcoscenico, con la luce spot dall’alto, puntata addosso e con il leggio di fronte”, persuaso di dare della grammatica italiana un’altra lettura, più conforme alla società che stiamo vivendo, con interpretazioni ricercate e spiegazioni di taglio scientifico.
   “Gesticolando al centro del palcoscenico”, si può immaginare l’Autore, che, capitolo dopo capitolo, analizzi dei presunti strafalcioni spesso ascoltati nella lingua parlata, ma, grazie ad alcune metafore interpretative, egli riesca a dare delle spiegazioni pragmatiche, certo di convincere anche gli studiosi della lingua dell’Accademia della Crusca, i quali ridimensionano l’emergenza di alcuni luoghi comuni, come quello che vede nella televisione, internet e nell’uso di parole in inglese: il male assoluto.
   Per aumentare la coreografia “dell’ipotetico palcoscenico”, si può immaginare di avere una “giuria d’insegnanti, veteropuristi e neo crusc” (come definisce De Benedetti, gli integralisti della lingua italiana), pronti a stigmatizzare qualsiasi aberrazione che capiti di ascoltare nella lingua parlata.
   Nella continuazione della lettura del testo, l’Autore, nelle sue dimenate interpretazioni, cerca di coinvolgere il pubblico e allo stesso tempo di convincere i neo crusc, schieramento di una generazione ormai non più collocabile, affinché possano realizzare le interpretazioni fornite, come tangibile segno di una società in evoluzione, in conformità ai tempi e alla velocizzazione delle comunicazioni attuali, come tutti noi stiamo vivendo.
Tullio De Mauro ha, infatti, affermato che:
La lingua italiana e la sua grammatica stanno benone ‒ e che ‒ mai nei secoli erano state adoperate da un numero così ampio di parlanti e mai tanto studiate da stranieri che apprendono l’italiano come seconda lingua. Siamo noi che stiamo meno bene: secondo una stima soltanto un terzo della popolazione ha gli strumenti culturali sufficienti a servirsi con scioltezza e correttezza di una lingua piena di varianti come l’italiano.
Dunque, dove eravamo? Ah sì, non si possono iniziare i discorsi con «dunque»: salvo che «dunque» non chiosi un discorso precedente; sempre che non serva a rimettere in fila le idee e a farle rigare dritto; se non per qualche ragione non sia utile impiegarlo prima di arrivare al “dunque”. In tutti questi casi, che a questo punto non sono più l’eccezione ma la maggioranza, il «dunque» iniziale è perfettamente lecito.
   Ecco che “ascoltiamo” la voce dell’Autore che, “dal palcoscenico virtuale”, legge una parte del suo testo e con l’occasione, ci rivela in che modo affronta l’analisi sulla grammatica italiana, in svolgimento. Come si può verificare che in un convegno, una giornata di studio, una lezione, il relatore a un certo punto apra un discorso, in apparenza non contestualizzato con la situazione in argomento, allo stesso modo De Benedetti, nei vari capitoli, riesca a costruire un castello di parole; che, seppur, possano dare l’impressione di prendere il via dal piano superiore verso la fine del capitolo, queste, invece, riescono a ricondurre alle fondamenta. Cerca di ridefinire il concetto di errore, di aggiornare la nomenclatura e la dottrina grammaticale più obsolete; soprattutto di riabilitare, attraverso gli esempi, alcune presunte devianze dalla norma. In questo il merito e la bravura dell’Autore nello svolgere quest’argomento, che ci coinvolge pagina dopo pagina.
   In realtà la grammatica spiega molto, ma non tutto: classifica in maniera non sempre soddisfacente e, quanto al disporre, non è vero che la gente le dia, sempre, così retta. Al punto che, ci legge l’Autore, “al centro del palcoscenico”:
Anche i linguisti, per la verità, dicono una cosa del genere, e cioè che l’italiano appartiene alla tipologia SVO (acronimo che indica appunto Soggetto, Verbo e Oggetto), ma così come è formulato dal maestro – ne converrete – il principio imbarca acqua da tutti i commi. Sorvoliamo per il momento sul fatto che non tutti i verbi portano per forza in dote un complemento oggetto. Dimentichiamo per un attimo che il soggetto ha tutto il diritto, se lo ritiene, di sottrarsi al matrimonio con il verbo, soprattutto se questo è un single impenitente come «piovere» o «nevicare». Tralasciamo anche di approfondire la questione se il verbo, fermo restando che è lui in casa a portare i pantaloni, sia così indispensabile nell’economia domestica.
    Al termine della lettura di questo brano “si spegne la luce del palcoscenico ed il pubblico applaude prolungatamente”.




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