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3 gennaio 2015

“Non si parte” un moto spontaneo: panorama del mondo contadino nella Sicilia tra 1944 e 1945


Non sempre ci si concentra sulla particolare situazione venutasi a creare in Sicilia dall’estate 1943: l'inizio della Guerra di liberazione del nostro Paese, che durò fino alla primavera 1945.
   Di fatto, i successivi avvenimenti sia siciliani, sia nazionali mutarono – e con essi il corso della Storia – dalla notte tra il 9 e il 10 luglio, ponendo la Sicilia quale prima regione a essere occupata dalle forze militari alleate, in pieno regime fascista, nonché a essere il primo territorio liberato dal nazifascismo, in una posizione che avrebbe potuto essere quasi di privilegio.
   In particolare, la situazione sociale di esasperazione totale – per lo stato di miseria generale – portò le popolazioni ad accogliere le truppe alleate come salvatori dalla dittatura fascista, che da tempo raggiunse alti livelli di corruzione per fare dei gerarchi, di cui ne fu implicato anche il duce e che ne ebbe chiara contezza, da subito, l’onorevole Matteotti.
   La speranza della gente siciliana fu quella di leggere tra i volti
dei nuovi occupanti anglo-americani la parola “fine”; la fine di una guerra che non portò per nulla le promesse iniziate al grido di Mussolini: «Combattenti di terra, di mare e dell'aria, Camicie nere della rivoluzione e delle legioni, uomini e donne d'Italia, dell'Im­pero e del Regno d'Albania, ascoltate!», il 10 giugno 1940.
L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all'oceano Indiano: Vincere! E vinceremo.
   Così il duce, dal balcone di piazza Venezia, convinse gli italiani a imbracciare le armi al fianco dell’alleato nazista. Un alleato che, già dalla conferenza di Ginevra del 1932 per il disarmo, continuò a fiancheggiare, poiché, sin dal 1919, Mussolini sostenne la tesi di rivedere i trattati di Versailles nei confronti della Germania, ritenuti ingiusti. Nonostante, ancora, il “patto dei quattro” basato sulla riappacificazione delle principali potenze europee Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e per una posizione paritaria, siglato a Roma il 15 luglio 1933, ma che non fu mai attuato; causa, anche, la guerra dell’Italia per la conquista coloniale dell’Etiopia del 1935, definita dalla Società delle nazioni «aggressione all'Etiopia», ma che il duce, senza curarsi delle sanzioni, dal balcone di piazza Venezia incitò con un sonoro: «Noi tireremo dritto».
   Nei comuni siciliani i ritmi di vita erano scanditi da cadenze “ancestrali”, con intrecci tra campagna e paese: il rientro del massaro in città, di sabato, il pane fatto in casa, il bucato lavato al fiume, le ricorrenze religiose, i primi quaderni di scuola, le spese per la salute, gli acquisti nella bottega con pagamento alla fine del mese. Sono alcuni dei comportamenti del menage che riesce a restituire l’immagine dell’epoca, secondo le tappe del percorso cronologico.
   Il risultato dell’arrivo delle truppe alleate e la firma dell’armistizio a Cassibile il 3 settembre 1943, reso, poi, noto dal neo capo di governo Badoglio, l’8 settembre, per qualcuno furono la “liberazione”, ma per altri la continuazione dei sacrifici quotidiani per tirare avanti: una serie di catastrofi sociali colpì le popolazioni siciliane, fra queste l’aumento della povertà, dovuta, anche, alla mancanza di punti di riferimento nelle autorità italiane.
   Lettere firmate o anonime parlarono di corruzione a tutti i livelli tra i funzionari politici, arricchitisi speculando su tutto. Negli uffici gestiti da impiegati nella maggior parte corrotti e, allo stesso tempo, nelle autorità alleate le quali ebbero più che altro l’interesse rivolto alla liberazione dell’Italia: 
Figlia mia, senz’olio le ruote non camminano. Vedi quell’impiegato? Basta andare a casa sua a portargli quattro uova, un pezzo di formaggio o un pollo e vedrai che ti fa tutto in un giorno e te lo manda fino a casa. Che ci vuoi fare? Mondo è stato e mondo è, le bocche vogliono mangiare… Agli sportelli vanno i poveracci, quelli che non hanno che dare, ma se lei può, la strada è questa[1].
   Del resto, questo fu il frutto della fascistizzazione dell’apparato dello Stato nata dal 1927, che si concretizzò non tanto con l’immissione di “nuova linfa”, ma col riciclaggio di vecchi funzionari e vecchi burocrati, rappresentanti, in altri termini, della vecchia classe dirigente, acconciatasi con maggiore o minore convinzione ad aderire al regime. Una classe dirigente “fascistizzata” solo in superficie, paradosso che il regime si portò appresso per la sua durata, al quale il duce cercò di porre rimedio accentrando le decisioni.
   Dal punto di vista socio-politico, lo scenario in Sicilia dall’estate 1943 vide un assestamento che volse verso due componenti principali: i separatisti e gli autonomisti, da cui le origini del movimento contadino. I proprietari latifondisti, oltre ai rappresentanti della classe dirigente prefascista, portarono la massa antifascista, che perseguì questi ideali in un momento che fu di grande confusione, verso un comportamento ricattatorio nei confronti della politica nazionale, basandolo sulla formazione di un movimento indipendentista. La minaccia di separatismo – sotto alcuni versi sobillata dagli americani, che, al comando del generale Patton, si spinsero senza motivazione tattica fino a Palermo – fu il primo pensiero dopo i fatti che giunsero al 17 agosto, in cui gli alleati entrarono in Messina, confermata alla notizia ufficiale dell’armistizio dell’8 settembre. Una provocazione che i separatisti cercarono di presentare a ogni ingerenza dello Stato, arrivando, finanche, a proporre la Sicilia quale quarantanovesima “stella” degli Stati Uniti.
   In contrapposizione, il continuo atteggiamento di nobili e signorotti che si sarebbero recati nei loro feudi solo per qualche giorno l’anno – costringendo contadini e braccianti, controllati dai campieri, a lavorare da mattina a sera, previo ricompense miserrime – portò a una serie di lotte contadine che non ebbero solo carattere locale, ma si espansero nell’intero territorio isolano. In un periodo che fu di abbandono politico ed economico, già risalente agli anni Trenta. Il ceto sociale proletario fu ancora sottoposto a continue vessazioni da parte dei proprietari agricoli, fiancheggiati dai mafiosi, rallentati solo in parte dalla ferrea attività del prefetto Mori – ormai un ricordo. Un complesso di difficoltà che si acuì nei confronti della classe contadina; che alimentò una vera lotta di liberazione unitaria, coniugando questioni politiche, sociali ed economiche legate oltre che allo sviluppo della Sicilia, anche del Meridione d’Italia congiunto a questa serie di problematiche, ma che vide il movimento contadino siciliano più forte che altrove, soprattutto nel dopoguerra.
   Agli occhi degli alleati addentratisi nell’isola, emerse – in tutta la sua più cruda realtà – lo stato di abbandono in cui fu lasciata la Sicilia dallo Stato sabaudo-fascista; senza un piano di sviluppo industriale, soltanto con dei piccoli centri che diedero lavoro localmente, come ad esempio le miniere di zolfo nell’ennese e di pietra pece nel ragusano o le saline nel trapanese. Seppur istituito da Mussolini già nel 1933 e affidato nelle sapienti “mani” di Alberto Beneduce – un social democratico, l’IRI non seppe fare molto per il Meridione e per tutto il periodo di dittatura fascista si accentuò il dualismo economico tra Nord e Sud e la Sicilia ne pagò, più di altre regioni meridionali, lo scotto della trasformazione dell'Italia, da paese agricolo a paese agricolo-industriale prima e industriale dopo. Ma questa sarà un’altra storia.
   Non certo abbandonata poté apparire la campagna siciliana agli anglo-americani, ben coltivata in tutti i suoi appezzamenti di terra, senza essere a conoscenza, però, dello stato di disagio dei contadini più poveri, gravati dagli interessi e privilegi verso i latifondisti, che li portò ad alimentare una propria autonomia e diffidenza nei confronti dei separatisti. Le terre siciliane furono “esasperate” per aver prodotto ciclicamente – solo grano – a discapito degli altri prodotti della natura, senza aver adottato la necessaria rotazione delle colture agrarie, per la necessità di fornire farina da inviare agli italiani in armi, agli ammassi e ad altre regioni.
   Purtroppo, gli interessi personali dei notabili dell’epoca – un problema avito, non solo sicilianista – non riuscirono a essere superati dalla visione del bene per la collettività, e non furono colte “le opportunità” fornite dall’occasione dello sbarco, per operare un radicale cambiamento socio-economico; nel non voler considerare la fase del fascismo come periodo transuente, fu operata la più elementare delle azioni, quella, cioè, della restaurazione di una forma politica liberale prefascista, risalente alla fase giolittiana, attuatasi sotto l'influenza americana.
   Da sempre, però, in Sicilia l’aspirazione contadina fu quella di poter disporre di terreno, per lo sviluppo del proprio contesto familiare e della collettività locale, motivo per cui varie forme di cooperazione non presero radicamento nell’isola; già dall’affittanza collettiva d’inizio secolo si cercò di uscire, a causa dell’ingerenza dei campieri in maggioranza mafiosi (gabellotti). La legge di colonizzazione del latifondo siciliano del 2 gennaio 1940, assunse specificatamente l’obiettivo di trasformazione del latifondo, ponendo in atto la colonizzazione per mezzo dell’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, con fini d’assistenza tecnica e finanziaria e per il controllo all’adempienza da parte dei proprietari. Furono progettati quindici borghi rurali in tutta la Sicilia, eccezion fatta per la provincia di Ragusa, dove fu ben nota l’assenza di latifondi, grazie all’utilizzo secolare dell’istituto dell’enfiteusi. Peraltro, Ragusa e Siracusa furono il fiore all’occhiello del fascismo nell’isola[2].
   L’emanazione da parte del governo di Unità nazionale, presieduto da Bonomi, dei decreti proposti dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo, nell’ottobre 1944, cercò di portare rimedio nei confronti delle classi contadine più abbienti, proprio perché alimentò un processo di unificazione riferita a una questione di primaria importanza sul territorio nazionale. L’assegnazione delle terre incolte ai contadini e le riduzioni dei canoni d’affitto ai massari furono i capisaldi su cui puntò Gullo “il ministro dei contadini”, per risanare la decennale problematica. Si trattò di un notevole progresso per i rapporti contrattuali in uso in Sicilia.
   Al momento dell’approvazione, però, fu forte la tensione sociale tra i due schieramenti siciliani, inframentati da ulteriori formazioni politiche interne, che obbligò il Partito comunista ad accettare gli emendamenti apportati dall’alto commissario Salvatore Aldisio, per un piano di riparto più favorevole agli agricoltori in caso di maggiore resa, avvantaggiando, al contempo, i contadini con estensioni minori, nella percentuale di riparto della resa di frumento. In quest’occasione la neonata Democrazia cristiana fece la scelta di tendere la mano ai latifondisti, offrendo una rappresentanza politica nazionale – che si protrasse nel dopoguerra – a confronto della copertura cercata nel movimento separatista.
   Un esempio delle tensioni fu il ferimento di Girolamo Li Causi a Villalba, a seguito di un comizio del Partito comunista, nel settembre 1944; un fatto di «violenza privata continuata» perpetrata da don Calogero Vizzini e altri, fu scritto nella sentenza della Corte di assise, anziché di delitto di strage contro gli oratori intervenuti al comizio contro la mafia, i fatti e le situazioni di Villalba.
   Di fatto, questi decreti furono svuotati dei contenuti da parte del ministro Antonio Segni, un politico di tendenze conservatrici, che diede l’opportunità ai proprietari dei terreni di mettere in discussione la legittimità delle norme sui fondi; atteggiamento che alimentò un’ondata di proteste in Sicilia, le quali dilagarono con l’occupazione delle terre abbandonate da parte dei braccianti e nella richiesta di un’effettiva “riforma agraria”. Questa, però, dovrà attendere gli anni Cinquanta.
   In quel periodo nel resto d’Italia, le donne e gli uomini degli schieramenti antifascisti, tra cui democristiani, socialisti e comunisti, avviarono la Resistenza – espressione di volontà, di riscatto dal fascismo e di difesa della Patria dalla ferocia nazista – lottando insieme per proteggerne le popolazioni, che in questa guerra furono gli obiettivi più martoriati da parte della ferocia nazista e dei repubblichini di Mussolini.
   In Sicilia, invero, si creò quel terreno di discussione e di accordi per realizzare la base politica dello sviluppo del dopoguerra nazionale, con degli schieramenti delineati da parte dei principali partiti, che coinvolsero le masse contadine e di cui in parecchi si riavvicinarono alla neo Democrazia cristiana, nello spirito del “codice di Camaldoli”, definito da Gabriele De Rosa: «Quel complesso di indirizzi programmatici ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa, che furono elaborati in vista della ricostruzione».
   Nel 1944, la realtà della guerra fu ancora in pieno svolgimento sul territorio italiano e in Sicilia, seppur non coinvolta dai conflitti contro i tedeschi, altri problemi accaddero per la popolazione siciliana: tutta l'economia agricola della regione si bloccò.
   L'ammasso del grano non fu rispettato e il mercato nero si concentrò in poche e “sicure” mani; gli ammassi istituiti durante il regime divennero, con decreto del 3 maggio 1944 del ministro Gullo, i granai del popolo «la cui composizione doveva essere concordata dall'alto commissario e dai prefetti, con i Cln e con le associazioni sindacali». Dopo l'11 febbraio 1944 la Sicilia tornò sotto l'amministrazione italiana e fu mantenuta la legislazione vincolistica sui cereali, risalente al 1936, che previde «l'ammasso totale della produzione cerealicola, a eccezione delle quote spettanti per il consumo personale e familiare».
Nella carta c’era stampato il decreto prefetizio che tutte le chiliente che vinevino in quello molino – che c’erano li carte annonarie per macinare, e d’ogni persona poteva macinare 13 chila di crano al mese, perché c’era lo razionamento, perché era tiempo di querra – e io il lavoro che doveva fare era che sopra queste 13 chile ci ne doveva fare mecenare 10 chile, e 3 chile mi l’aveva a prentere io, per poi metterlle nei sacchi, che poi venevino l’impiagate della carta annonaria e si lo prentevino. E questo, poi, serveva per le forzze armate che facevino la querra. […] Quinte, voldire che se una persona che era capo di famiglia ed erino 6 di famiglia e portavino con il carretto 6 volte 13 chile di crano per macinalle, io ci ne doveva levare 18 chile per forzza, altremente non li doveva fare macinare. E questo, per me, era un lavoro brutto, ma secome era questa la leggie fascista, si doveva fare per forzza[3].
   Per le nove province siciliane fu stabilito il conferimento di una quota complessiva minima di trecentodiecimila tonnellate, delle quali, per potersi assicurare la distribuzione di una razione giornaliera di duecento grammi di pane duro e nerissimo, poi sceso a centocinquanta grammi e di cento di pasta ai cittadini muniti di tessera annonaria – con esclusione, quindi, dei produttori, coltivatori diretti, ecc. – fu necessario, secondo calcoli attendibili, il conferimento di almeno i due terzi. Ciò non fu possibile e gli alleati non essendo in grado di offrire soluzioni, prospettarono l’unica attuabile: l'importazione di grano “estero”.
    Fu un’annata di miseria e fame, peggiore di quelle che precedettero, a causa di una resa limitata delle mietiture, calcolata intorno al 65%. Molte famiglie per debellare la fame furono costrette a macinare durante la notte, con mortai a mano, il grano trafugato dalla consegna ai granai, per evitare di essere sorpresi dai controlli severissimi dovuti al razionamento. Numerose le denuncie a carico di quei produttori che non conferirono il grano agli ammassi, ma i tribunali non riuscirono a comminare condanne, mandando assolti quasi regolarmente tutti coloro che risultarono accaparratori di farina o di altre derrate alimentari o non conferitori di grano, dei quali le stesse mogli dei magistrati furono sovente clienti.
   Per colpa del carovita in alcuni comuni vi furono delle improvvisate sommosse popolari: a Partinico il 29 marzo, a Regalbuto il 27 maggio, a Licata il 28 maggio. Le lagnanze popolari continuarono anche dopo il raccolto, come a Casteldaccia il 6 agosto; a Villalba il 16 settembre, come suindicato. Pure nella città di Palermo, il 19 ottobre, vi furono manifestazioni di folla che finirono per trasformarsi in tragedie. In via Maqueda i manifestanti palermitani, coinvolti in alcune proteste degli impiegati comunali, volsero verso una vera e propria ribellione di popolo, stanco dei bombardamenti subiti sin dalla vigilia dello sbarco alleato e della situazione alimentare non più sostenibile, a causa del caro prezzi. Questa fu sedata nel sangue «dal piombo sabaudo», dai fanti del 139° Reggimento della Divisione sicurezza interna “Sabaudia”[4]. Oltre trenta furono i morti accertati, tra cui bambini e giovani e numerosi i feriti, più di centocinquanta, le vittime della «strage del pane», come fu ribattezzata.
   A Ragusa, assembramenti di donne con bambini, mogli e madri di uomini assegnati all’esercito, alla marina o all’aeronautica, lontani chilometri dalle loro famiglie, manifestarono per rappresentare l’esasperazione dello stato delle cose e della miseria quotidiana.
Negli uffici è pieno di fascisti, quegli stessi che ci dicevano di buttarvi acqua bollente per non farvi entrare. Ora sono qui, come prima, e fanno gli amici con voi. Perché non avete mantenuto le promesse che leggemmo nei vostri manifestini? Perché agite come il Duce, tante parole e niente fatti? Non si può continuare così a deludere il popolo…[5].
   Di fatto, la maggior parte delle persone cercò di allontanarsi dalle varie cittadine tentando di trovare rifugiò nelle campagne siciliane, cercando protezione in casa di parenti e amici.
   Nonostante lo sbarco degli alleati e la “fine” della guerra nell’isola, si ritrovò stretta in una morsa, che da una parte rivide i latifondisti, i quali, con l’appoggio della mafia, in maggioranza presero presso di loro gran parte del mercato nero alimentare; dall’altra – una voce divenne realtà – il regio esercito che richiamò gli uomini disponibili, per rinforzare i reparti schierati nel percorso appenninico della Linea gotica.
   A far aumentare, infatti, le preoccupazioni delle famiglie siciliane vi furono le chiamate alle armi degli uomini appartenenti alle classi dal 1914 al primo quadrimestre 1924; una conclusione del censimento avviato in precedenza in Sicilia, che avrebbe dovuto comprendere anche disertori e sbandati dell’8 settembre.

fine prima parte



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[1] M. Occhipinti, Una donna di Ragusa, Sellerio, Palermo 1993, p. 45.
[2] A Ragusa Ibla il giorno 11 giugno 1920 fu inaugurato il primo "Fascio" di Sicilia, a cura di Totò Giurato legionario fiumano.  
[3] V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007, pp. 269-270. 
[4] Le Divisioni di sicurezza interna in Sardena e in Sicilia furono autorizzate, oltre al I Raggruppamento motorizzato, quali unici reparti dell'esercito italiano al fianco delle truppe alleate.
[5] M. Occhipinti, cit., p. 66.
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