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14 dicembre 2015

Il campo di concentramento di Vittoria

La Sicilia nella Grandeguerra tra disagi e misericordia allo straniero



Babbo, oggi ho pensato a te, più degli altri giorni; domani è il giorno della mia nascita. Sono convalescente in un ospedaletto; debole, e mi son sentito un mucchio di dolcezza primaverile nell’anima, oggi.
È quasi un anno di guerra, e faran due che son soldato; un anno di guerra varia, zingara, ardita qual’è quella dei bombardieri. Presto tornerò in prima linea, presto riprenderò il mio posto, dove più che rettorica, mi guida la verità e la forza dei tuoi insegnamenti. Mi guida la volontà, il sapere che oggi è la parola “ITALIA” per la gioventù; ciò che domani sarà la NAZIONE NOSTRA per tutti
[1].


Luciano Nicastro
La Belle epoque fu, di certo, un lungo periodo – dal 1870 al 1914 – di pace, che fece progredire l’Europa come non mai; il secolo si aprì all’insegna dell’ottimismo e della fiducia nel progresso scientifico, economico e sociale, come rappresentato nell’Exposition de Paris 1900, in cui si disse che fu «il battesimo dell’età dell’oro».
    Di contro, l’urbanesimo di massa che fece venir meno il ruolo patriarcale della famiglia, a cagione dell’incidenza di una società che volse, sempre di più, verso uno sviluppo individualista e capitalista, che, al principio del XX secolo, continuò in Italia ad alimentare il movimento operaio e il nascente socialismo.
   Proseguirono numerose, infatti, le rivendicazioni sociali per una migliore condizione di vita e di lavoro per le masse proletarie, avanzate dai socialisti e dall’estrema sinistra, come pure per i cattolici – il cui pensiero fu rivolto alla “questione romana”, che non ebbe immediata soluzione – si aprì il nuovo secolo con richieste a favore dei lavoratori, sulla base della Rerum novarum di Leone XIII, che condannò la deificazione del denaro e la mancanza di rispetto per l’uomo e per la sua dignità.
   Questo periodo di difficoltà economiche, soprattutto, per i ceti meno abbienti, fu il costo che si dovette pagare per via dell’arrivo, già dalla fine dell’Ottocento, di cereali e carne dagli Stati Uniti e dai paesi asiatici, compresa la Russia, il cui abbassamento dei costi dei noli fece aumentare le navigazioni di carichi dall’estero; a ciò si aggiunse, anche, il blocco d’importazione del nostro vino da parte della Francia. “Disboscamento, malaria, mancanza di capitali, ignoranza e immoralità della classe dominante e analfabetismo della classe lavoratrice”, furono le conseguenze denunciate da Gaetano Salvemini e che portarono molte comunità a preparare i pochi bagagli per dare seguito a una sorta di contro bilanciamento verso gli Stati Uniti, contribuendo a una notevole emigrazione di massa, che già prese avvio dalla fine del XIX secolo.
   Al termine della Belle epoque molti, tuttavia, furono convinti che la guerra fosse utile per “l’igiene del mondo”: l’occasione per raddrizzare storture secolari, che diedero spazio al mito della rigenerazione del carattere degli italiani, che occupò un posto stabile nella cultura italiana già dal Risorgimento.
   Franz Joseph I, imperatore d’Austria, non fu di quest’opinione, al punto che ribatté al suo capo di stato maggiore, il maresciallo Franz Conrad von Hötzendorf che gli propose la guerra contro l’Italia, di essere un uomo amante della politica di pace. Egli, difatti, incapace di scegliere tra Medioevo e futuro, non comprese la nuova Europa dei conflitti sociali e dei nazionalismi esasperati.
   Interventisti e neutralisti, a questo punto, furono al centro della scena italiana già dal luglio 1914, a favore o meno della Triplice alleanza, soprattutto, per la questione delle terre irredente del Trentino e Venezia Giulia, ma in quel periodo non ci fu nulla da difendere, poiché l’Austria dichiarò guerra alla Serbia dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno all’erede al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando e alla duchessa Sophie von Hohenberg.
Sette forti di recente costruzione, tutti in cemento e acciaio, ci proteggono da un attacco italiano. Essi sono per noi ancora più importanti della catena di fortificazioni della Galizia e della stessa flotta. Il più geniale soldato degli Imperi Centrali, Conrad von Hötzendorf, riuscì, anni or sono, a fare approvare la legge che autorizzava la loro costruzione, attraverso accanite battaglie contro la testardaggine e la miopia dei Parlamenti d’Austria e di Ungheria. Questi forti dovevano avere, nel piano del generale, il preciso e unico scopo di arginare, per tre settimane, l’impeto del nemico contro gli altipiani. Quindi sarebbe toccato a noi passare all’offensiva. [...] Sull’altipiano di Lavarone esistono quattro forti: Cima di Vazzena, Verle, Lusera e Gschwendt[2].
   Nell’estremo lembo d’Italia, nella Sicilia “del Gattopardo” non si pensò al trattato difensivo per isolare la Francia, stipulato con Austria e Germania alla fine dell’Ottocento, bensì, aumentarono le discussioni riguardo al dover fornire uomini da distogliere dalla quotidianità agricola e paesana, avviata dopo la partenza di Garibaldi e consegnata in gran parte ai proprietari agrari. Furono, infatti, circa 55.000 i figli che la Sicilia donò alla Patria per la prosecuzione del processo di nazionalizzazione, come avviato nel 1861; la terra in cui ci fu il numero maggiore di richiamati alle armi del Meridione, oltre 500.000, con 9.321 decorati al valor militare[3].
   Questa quotidianità fu più volte sconvolta da una lenta rivoluzione partita dal basso, già con i Fasci siciliani dei lavoratori di fine Ottocento, che vide coinvolti uomini, donne e bambini impegnati per il riscatto della loro condizione sociale, paragonabile alla servitù della gleba, in cui continuarono a trovarsi contadini e operai siciliani e che videro il culmine con l’autorizzazione alla costituzione di organizzazioni politico-sindacali – leghe contadine – proposte maggiormente dai socialisti, a tutela della categoria.
   Già all’inizio del XX secolo, però, le cronache registrarono dei fatti che destabilizzarono la vita quotidiana di piccole comunità, ormai esasperate, a seguito di angherie e pressioni politico-amministrative. Si trattò dapprima di Giarratana, un piccolo comune nell’allora provincia di Siracusa, in cui il 13 ottobre 1902 furono uccisi un bambino di quattro anni, un contadino e, anche, un carabiniere “che non si difese con energia e fu fatto a pezzi dalla folla inferocita” che protestò per chiedere un aumento dei salari.
Ecco come il fatto si svolse.
Il carabiniere Giancastro Antonino della stazione di Modica alta, fu assalito da parecchi rivoltosi e ridotto colle spalle contro il muro della casa del barone Arpino. Il Giancastro tentò dapprima di difendersi menando colpi di sciabola e sparando cinque colpi di pistola in aria. Colpito da una sassata alla testa, si ritirò vacillando nella casa del barone, di cui riuscì a chiudere la porta, puntellandola di dietro.
La porta fu, però, presto sfondata: e, durante il tempo in cui gli altri militari erano corsi in caserma per prendere i moschetti, il carabiniere Giancastro venne barbaramente assassinato a pietrate, a colpi di bastone, con tre colpi della sua stessa sciabola, alla gola.
Appena in caserma, il brigadiere, accortosi della mancanza del carabiniere Giancastro, uscì immediatamente con tutti i militari armati di moschetto, per ricercarlo.

Saputo per via che si era rifugiato in una casa prossima al luogo dove era avvenuto il conflitto, corse subito da quella parte. Appena sul Corso, i carabinieri scorsero, alla loro destra, un borghese che bastonava il carabiniere Giancastro, ancora boccheggiante e orribilmente sfigurato dalle ferite avute. Egli era stato trascinato fuori dalla casa del barone da un altro borghese, il quale, lasciando in quel mentre cadere il corpo dell’infelice carabiniere, gli dava un ultimo calcio nel ventre[4].
   Così il ministro degli Interni Giovanni Giolitti espose alla Camera, dopo i fatti di cronaca, su interpellanza proposta dal deputato Federico Cocuzza di Monterosso Almo.
   Si ebbe un seguito con gli scioperi di Castelluzzo nell’estate del 1904, un’epopea di lotte contadine nei feudi di Trapani e quel 13 settembre, dei contadini, che furono definiti “fuorilegge” mentre si svolsero le pratiche per la sottoscrizione di alcuni soci della lega socialista alla società agricola cooperativa in ‘San Marco’ per l’affittanza collettiva: due di essi morirono e sei furono i feriti gravi, a causa dell’intervento armato dei reali carabinieri alle dipendenze del brigadiere Carlo Riffaldi[5]. Indignazione e commozione pubblica, riferita anche ad altri episodi simili nel Mezzogiorno, come furono a Candela, Bogherru e Torre Annunziata, tanto che portarono alla mobilitazione – al primo sciopero generale della storia italiana – del 16 settembre, indetto a Milano dalla Camera del lavoro e dalle forze della sinistra radicale e che in Sicilia seguì il 19 settembre a Palermo, contro le sanguinose repressioni manu militari: un lascito del governo Pelloux.
Le vittime:
Lombardo Francesco di Antonino, di anni 24, ferito
Bontommasi Nicolò fu Giuseppe, di anni 35, ferito
Spada Salvatore fu Andrea, di anni 30, ferito
Poma Giuseppe fu Antonino, di anni 64, ferito
Florena Giuseppe fu Giuseppe, di anni 28, ferito
Grammatico Anna in Oddo, di anni 27, ferita
Lombardo Vito fu Francesco, di anni 51, ferito
Raiti Nicolòdi Giacomo, di anni 34, ferito.
L’“eroe” che si coprì d’infamia:
Brigadiere dei RR.CC. Carlo Riffaldi[6].
   Infine, il 16 agosto 1905 a Grammichele in provincia di Catania, accaddero cruenti scontri che portarono, anche questa volta, a una mattanza: la strage di San Rocco.
   Nei fatti, dalla piazza principale del paese iniziò, già nella mattinata, la festa per l’inaugurazione della nuova Camera del lavoro, con tanto di bandiera nuova; il corteo sfilò per le strade del paese, con la banda militare in testa, insieme ai soci della lega di ‘Resistenza’ e agli iscritti della società ‘Umberto I’ dei militi in congedo. Terminato il giro, il corteo giunse nuovamente alla piazza e assieme alla gente accorsa, tutti ascoltarono i discorsi ufficiali dei rappresentanti delle varie associazioni: un segnale di riappacificazione, dato che in precedenza furono in contrasto tra di loro.
   Al termine dei discorsi ufficiali, un certo Piriddu (al secolo Lorenzo Grosso), un contadino di mezz’età, inneggiò la folla alla lotta di classe, si dice, con le seguenti parole: «Compagni, noi dobbiamo unirci contro i civili, contro i cappeddi, che sono stati e saranno sempre i nostri nemici, i nostri assassini. Uniamoci per vincerli!».
   Queste parole di verità fecero salire la temperatura, peraltro, già molto alta in quel ferragosto, come pure, le parole di monito rivolte dal delegato di pubblica sicurezza Francesco Basilicò verso il sobillatore, che provocarono l’assalto da parte della folla intervenuta al ‘Casino dei civili’, sede del circolo dei “galantuomini”, all’interno dei locali del Municipio, che fu distrutto dai dimostranti e dato alle fiamme. Questi proseguirono inferociti cercando di assalire l’esattoria all’interno del Municipio, ma ci fu, in questo momento, la reazione della forza pubblica, tra carabinieri e sodati mandati da Vizzini, al comando del sottotenente Luigi Festa, i quali, dopo i tre squilli di tromba, fecero fuoco per disperdere i manifestanti, ma che lasciarono, comunque, dei mal capitati a terra ormai inerti. Oltre 15 furono i morti, tra cui donne e un bimbo Salvatore Malizia di nove anni, e i feriti superarono i 100[7].
   Nonostante il presidente del Consiglio Alessandro Fortis fosse un esponente della sinistra storica, per i funesti fatti, molti esponenti delle diverse aree politiche di destra e di sinistra lo attaccarono ed egli cercò di chiarire, specificando che le risoluzioni di certe situazioni dovessero collegarsi ai presupposti infelici di quelle popolazioni: condizioni di lavoro, latifondo, sistema tributario, usura e insalubrità, tra le cause principali.
   Causa funesta di ulteriori lutti, seppur di altra natura, fu il terremoto nello Stretto del 28 dicembre 1908. Circa 8.000 i morti nell’area di Messina, a causa della scossa di 37 lunghi secondi di moto oscillatorio, a cui contribuì anche il maremoto.
   Dopo qualche anno, non certo ebbero chiaro a cosa sarebbero dovuti andare incontro i figli di Sicilia, superate le 18.00 del 23 maggio 1915 – causa di una decisione presa solamente da Vittorio Emanuele III, dal capo del governo Antonio Salandra e dal ministro degli Esteri Sideney Sonnino – un «colpo di stato» come dichiarò Francesco Saverio Nitti. I socialisti, nella schiera dei neutralisti, avendo inteso la guerra come uno scontro tra capitalisti, non ritennero giusto far intervenire i proletari al fronte, semmai avrebbero dovuto concentrarsi per la lotta di classe, anche se, già da qualche tempo, credessero che la guerra fosse la via per la rivoluzione sociale.
   Il conflitto armato, di fatto, scoppiò sul territorio italiano il 23 maggio: già nel pomeriggio degli spari furono indirizzati verso una motobarca che portò la comunicazione dello stato di guerra al distaccamento in foce Ausa, dagli uomini della dogana austriaca di Portobuso, Grado; la sera alle 22.40, dei colpi sul ponte sul fiume Judrio a Brazzano, per mano dei finanzieri Costantino Carta e Pietro Dell’Acqua in servizio di vedetta, che respinsero un tentativo di’infiltrazione degli austriaci e la notte alle 03.55 del 24 maggio, due colpi di cannone squarciarono il cielo sull’altopiano di Asiago, sparati dal forte Verena, costruito a 2019 metri di altezza; dopodiché, per la prima vera vittoria italiana bisognò attendere la conquista del monte Sabotino e Gorizia, che cadde nelle nostre mani l’8 agosto 1916, dove numerosi furono i prigionieri austriaci.
   Del resto, il comandante dell’esercito austriaco generale Conrad pensò che l’espansione dell’impero dovesse essere a Sud verso l’Italia e la Serbia e, pertanto, cercò di attaccare in modo risolutivo il fronte italiano da maggio a giugno 1916, con questo piano: scendere dal Trentino, lungo l’Adige, per prendere alle spalle il grosso dell’esercito italiano sul Carso.
   Per quei prigionieri austro-ungarici, trasportati a 1.500 chilometri dal confine, si aprì un’altra visione della guerra; una scoperta che gli permise di conoscere altri italiani, quelli del Sud, che furono tanto denigrati e non considerati all’altezza degli altri uomini degli stati europei: come lo ritennero gli statunitensi al momento delle registrazioni dei tanti emigrati giunti a Long Island e marchiati con l’indicazione italian (South).
   Il campo più grande della Sicilia e tra i primi per capienza a livello nazionale fu identificato dal Genio militare di Messina, incaricato di individuare un’area adeguata all’accentramento di circa 15.000 prigionieri, catturati dall’esercito italiano. Intervennero, nell’estate 1915, il comando del XII Corpo d’armata di Palermo e la Commissione militare per i prigionieri di guerra di Roma, mentre il Comune di Vittoria dovette subire l’ingerenza dei soldati del genio, che già dall’autunno 1916 iniziò gli espropri dei terreni, per terminare i lavori all’inizio della primavera 1917.
   La scelta cadde sul territorio a Sudest di Vittoria, allora in provincia di Siracusa, nella contrada Capitina e Mendolilli, un’area di circa 21 ettari un po’ più elevata e quindi più esposta all’aria di brezza proveniente dal mare, utile a sconfiggere il formarsi di ceppi virali epidemici e dal fondo roccioso, di non facile intaccatura “a mani nude”; inoltre, la presenza a un centinaio di metri del fiume Ippari fece aumentare le possibilità di utilizzo di acqua corrente, per i servizi necessari al campo.
   Per dare seguito al regolamento della convenzione dell'Aia, ratificata il 18 ottobre 1907, la cui novella dell'articolo 7 impose ai governi di mantenere i soldati nemici catturati al fronte, in mancanza d’intesa speciale tra i belligeranti, i prigionieri di guerra saranno trattati per il nutrimento, l’alloggio e il vestiario, come le truppe dei Governo che li avrà catturati, furono costruite delle  baracche, le prime in legno e poi ne furono costruite in tutto 37 in muratura e a presidiare il campo arrivarono 1.400 soldati e un reparto di polizia giudiziaria.
   Nessun civile poté visitare il campo, se non previa autorizzazione del comando di Corpo d’armata e, di fatto, non si scrisse di questa struttura né nei quotidiani nazionali, né nella stampa locale. In ogni modo, la Commissione militare per i prigionieri di guerra, presieduta dal generale Paolo Spingardi, ex ministro della Guerra del governo Crispi, che curò il funzionamento del concentramento, accentramento e informazioni, si coordinò con la Commissione prigionieri di guerra della Croce rossa italiana – presieduta nel 1915 dall’onorevole Emilio Maraini, poi dal 1917, dal senatore Giuseppe Frascara – per gestire anche i prigionieri austro-ungarici rinchiusi nei vari campi nel territorio italiano e che tenne rapporti diretti con la Croce rossa di Vienna, con la quale scambiò periodicamente le liste ufficiali, occupandosi del servizio di corrispondenza dei prigionieri nemici.
   Agli inizi del 1917, tuttavia, al campo di Vittoria si applicarono alcune disposizioni:
─ ai prigionieri non fu permesso di avere denaro e, pertanto, furono istituiti dei buoni regolari da poter spendere negli spacci interni;
─ ai prigionieri, essendo agli inizi un centinaio, furono autorizzate due uscite settimanali nella città, scortati da un ufficiale e un soldato.
   Per gli italiani la tradizione di trattar bene i prigionieri fu rispettata già nella guerra contro la Turchia del 1911, per la conquista della Libia. Infatti, anche i prigionieri turchi furono trattati secondo i dettami normativi in vigore, che, tra l’altro, previde l’utilizzo dei prigionieri di truppa per dei lavori agricoli, a causa della carenza di mano d’opera maschile locale tradotta al fronte. Nella fattispecie, fu il Ministero dell’agricoltura, industria e commercio che il 25 maggio 1916 diede disposizioni ai prefetti, circa l’utilizzo dei soldati nemici prigionieri nei lavori agricoli, maggiormente per le mietiture e nelle officine industriali, sorvegliati e scortati da soldati italiani, evidenziando la centralità della produzione agricola siciliana per gli approvvigionamenti dell’esercito.
I prigionieri dell’esercito della duplice monarchia di Vittoria furono impiegati, in aiuto della popolazione locale, in lavori artigianali e in agricoltura. Accolti molto bene nelle case dei cittadini vittoriesi, lasciarono in ricordo una miriade di oggetti realizzati da loro durante la prigionia che troviamo anche a Chiaramonte Gulfi. Una quarantina di loro prestarono servizio come netturbini per la pulizia delle strade, seppellendo anche i morti causati dall' "influenza Spagnola". La popolazione mossa a pietà, con altruismo, non fece mancare loro il cibo e il vino[8].
   Di questo rapporto con il nemico agli abitanti del luogo rimasero, comunque, dei ricordi di contatti con altri uomini che non ebbero l’interesse primario della guerra, ma che, invece, lasciarono parole di elogio e dei manufatti come souvenir per il fatto di essere stati trattati umanamente dalla popolazione locale, dagli agricoltori, dai bottegai, dove poterono ottenere oltre a prodotti alimentari e della biancheria, anche qualche libro.
   Nel campo di prigionia – che rinchiuse una media di 5.000 prigionieri austro-ungarici – nel periodo di comando del capitano Giovanni Battista Parrini, tra il 1917 e il 1918, transitarono circa 18.000 prigionieri tra austriaci, ungheresi, polacchi, cechi, slovacchi, erzegovini, bosniaci, croati, dalmati, tedeschi e nel periodo dal 22 giugno 1917 al 28 febbraio 1920 morirono 268 prigionieri, di cui 118 a causa dell’epidemica febbre “spagnola”, che nel 1918 fece circa 5.000.000 di morti in tutta Europa.
   Oltre a quello di Vittoria, altri campi di prigionia per gli austro-ungarici di dimensioni inferiori, alle dipendenze del XII Corpo d’armata di Palermo, ci furono a Palermo stessa, nel nisseno a Piazza Armerina nell’ex monastero SS. Trinità, luogo di detenzione degli ufficiali e nelle caserme ‘Cosenz’, ‘S. Giovanni’ e ‘Fasce’ e in vari comuni della Sicilia campi di lavoro e luoghi di detenzione di dimensioni minori: nel palermitano a Balestrate nello stabilimento enologico ‘Florio-Woodhouse’, Caccamo nel castello, Caltavuturo, Carini, Cefalù nella caserma ‘Nicola Botta’, luogo di detenzione degli ufficiali e nell’87° Distretto ex caserma ‘Spinuzza’, Monreale nel convitto ‘Guglielmo’, Termini Imerese nel convento S. Maria di Gesù, Terrasini; nel messinese a Letojanni, Milazzo nel castello; nel catanese ad Adrano nel castello normanno e nel monastero S. Lucia, Catania nel castello Ursino, luogo di detenzione degli ufficiali di nazionalità romena e nella zona Picanello campo di lavoro per la truppa detenuta, Misterbianco nella fabbrica ‘Monaco’, Paternò nel castello normanno e nel monastero della S.S. Annunziata, San Giovanni La Punta nel seminario arcivescovile, luogo di detenzione degli ufficiali, Tremestieri Etneo campo di lavoro per la truppa detenuta; nel siracusano a Noto, Pozzallo nei magazzini ‘Bruno Papa’; nell’agrigentino a Favara, Sciacca nella caserma ‘S. Francesco’; a Trapani.
Le dichiarazioni più lusinghiere furono però quelle dell' ambasciatore di Spagna presso il Quirinale, Ramon Pina Millet. L'egregio diplomatico visitò i prigionieri austriaci in Italia e riferì i risultati delle proprie indagini al governo viennese, che gli aveva conferito la tutela degli interessi austriaci in Italia durante la guerra, ed al proprio Sovrano, il quale volle farsi un dovere di incaricarlo di esprimere il suo «vivo compiacimento al Generale Spingardi, presidente della Commissione per i prigionieri dipendente dal Ministero della Guerra, per le condizioni, ottime sotto ogni rapporto, in cui si trovano i prigionieri austriaci, e per il buon trattamento che, senza eccezione, viene loro usato dalle autorità italiane»[9].
   In molti casi, non furono le stesse le conclusioni che poterono trarre i prigionieri italiani nei campi di concentramento nemici, le cui attività furono rivolte alla perenne ricerca di cibo e di cui molti ricordarono “il supplizio del palo” – che fu abolito dall'imperatore Carlo poco dopo al sua salita al trono nel 1916, fu reintrodotto nell'ultimo anno di guerra e applicato, anche, ai disertori austriaci, catturati – sotto il controllo di sentinelle ungheresi, che insieme ai soldati croati e bosniaci furono i più spietati e disumani.
Così, recordo che il 4 novembre, ciornata che non la dementecheranno nessuno de li uomine che sono nate e quelle che devino nascire, che verso li ore 10, prima di mezzo ciorno, hanno passato tante aparechi basse basse, che butaino un’altra collazione di menefesti, più significative di quelle di iere, che dicevi che immidiatamente si doveva scomprare una delle 2 strade, quella a destra che viene di Basssano, che devino passare una colonna di machene con tutto lo Stato maggiore, che dovevino antare a Trento a fermare l’ommistizio.
Che bella parola «fermare la pace del monto»! Perché questa querra il nome che aveva era «la Querra montiale». E dovevino passsare di quella stradali oficiale di tutte le nazione che avevino preso parte a questa dannata querra
[10].
   Le conclusioni più attagliate, e divergenti a confronto alle speranze esternate all’inizio del Novecento, furono, secondo lo storico inglese Eric Hobsbawm, che dal 1914 al secondo dopoguerra – il cosiddetto «secolo breve» – fu considerato, invece, “l’età della catastrofe”.
   Oggi è possibile commemorare il 20° anniversario della fondazione del Museo storico italo-ungherese, inaugurato il 14 dicembre 1995 a Vittoria, in ricordo dei prigionieri austro-ungarici del campo di concentramento.




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[1] L. Nicastro, 15 aprile 1917, Tip. S. Piccitto, Ragusa 1917, p. 3. 
[2] F. Weber, Tappe della disfatta, trad. R. Segàla, Casa Editrice A. Corticelli, Milano 1935, II ed., p. 9.
[3] F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. III, Sellerio, Palermo 2003, p. 1156.
[4] Camera dei Deputati, Tornata di lunedì 15 dicembre 1902, Atti Parlamentari, Legislatura XXI, p. 4652.
[5] “Tornando alla tragedia di Castelluzzo, il processo contro il brigadiere Riffaldi ed il carabiniere Mancuso, principali responsabili dell’accaduto, si concluse nell’aprile 1905 con sentenza di proscioglimento”. In G. Scolaro, Il movimento antimafia siciliano, terrelibere.org, III ed., 2008, p. 96.
[6] L’eccidio di Castelluzzo. La caccia al contadino!, in «La Voce dei Socialisti», n. 21, Trapani, 17 settembre 1904.
[7] Per maggiori approfondimenti A. Spadaro, Nuovi dati sulla “strage di San Rocco”, in «Incontri», a. I, n. 1, Ott./Dic. 2012 e a. I, n. 2, Gen./Mar. 2013.
[8] G. Francione, Il campo di concentramento di Vittoria per i prigionieri di guerra, in “Memorie e attualità tra storia e salute”, P. De Castro, D. Marsili, A. Trova (a cura di), Roma, Istituto Superiore Sanità, 2015, p. 51.
[9] B. Maineri, I prigionieri della grande guerra, in “Almanacco Italiano. Piccola enciclopedia popolare della vita pratica”, vol. XXII, Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1917, p. 393.
[10] V. Rabito, Terra matta, E. Santangelo e L. Ricci (a cura di), Torino, Einaudi, p. 118.


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