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4 agosto 2019

Dalla ABCD alla Purfina (5)

Dall'A.B.C.D. all'A.N.I.C.

Ragusa società in movimento e l'indotto creato dal petrolio negli anni Cinquanta


La maggiore disponibilità di cemento sul posto portò oltre a un cambiamento della struttura
urbanistica e architettonica della città, anche all’ampliamento dello sviluppo di determinati quartieri, attraverso la costruzione di nuove abitazioni private. Ciò avvenne a seguito delle accelerazioni venutesi a creare, che diedero l’impressione di maggiori possibilità economiche nei bilanci familiari. Di contro, su quest’argomento, la rapidità dello sviluppo del settore edile trovò impreparata la classe amministrativa locale, che lasciò spazio a fenomeni di speculazione. Fermo restando, che, comunque, l’attività edile subì un forte arresto nell’area circostante gli stabilimenti dell’ABCD, per via delle polveri e delle esalazioni rilasciate dalle lavorazioni all’interno degli stabilimenti, le quali alimentarono i commenti negativi di tal altri componenti della comunità ragusana, al punto che considerarono una iattura il ritrovamento del petrolio.

   Legata alla preoccupazione di una raffineria a pochi metri dalle abitazioni, si ebbe un sostanziale sviluppo nella parte alta della città, nelle contrade Beddio e Annunziata, con nuove costruzioni, distanti dagli stabilimenti; di questi, però, nel 1958 molti rimasero invenduti per lungo tempo, a causa della mancanza dei servizi che l’amministrazione comunale tardò a realizzare, in attesa dell’approvazione del nuovo Piano regolatore. Inoltre, questa “esplosione” di appaltatori edili creò una saturazione di mercato e una chiusura verso i piccoli imprenditori, soprattutto abili nella costruzione con pietra a secco, che, invece, dovette fare spazio al cemento armato. Questi, infatti, per far fronte ai prestiti ricevuti dalle banche dovettero procurarsi nuovi lavori fuori dall’ambito comunale di Ragusa e qualcuno fu costretto, perfino a emigrare all’estero per reperire i capitali. 
   D’altro canto, fu come se non fosse mai esistito il concetto di “comunità agricola”, che avrebbe potuto tamponare il fenomeno dell’urbanesimo e che, invece, vide un continuo aumento di persone nel capoluogo di provincia, in questo periodo, preminentemente volto alla ripresa a seguito della “scoperta” del petrolio e per l’indotto creatosi.
   Si noti come nella composizione percentuale del reddito per settori economici, il ramo Agricoltura e Foreste partecipi sempre con valori superiori al 50%, mostrando chiaramente la struttura agricola della Provincia. Segue il settore Commercio, Credito, Assicurazioni e Trasporti, con valori oscillanti attorno al 30%; quindi, intorno al 12% la Pubblica Amministrazione e infine, con notevole distacco gli altri.
   In termini globali, tra il 1952 ed il 1954 si nota un notevole incremento del reddito (incremento pari al 51%) assai maggiore del corrispettivo incremento del reddito nazionale (19%); segue una lieve flessione nel 1955 ed ancora una ripresa ascendente nel 1956 e soprattutto nel 1957.
   (...) Negli anni dal 1952 al 1957 all’aumento del reddito pro-capite del 70% nella Provincia di Ragusa, corrisponde un aumento del 40% del reddito pro-capite nazionale; tuttavia in valori assoluti il reddito pro-capite ragusano è ancora molto basso e raggiunge appena il 56% del reddito pro-capite nazionale del 1956 e il 61,5% nel 1957.
  Molto spiccato, al contrario, il concetto d’individualismo nella collettività ragusana, che sviluppò la “necessità” di avere un’abitazione personale, peraltro, status symbol nella “scalata” sociale. Rappresentazione della sicurezza economica e di proprietà di un bene patrimoniale, che riproduce la scarsa propensione al rischio speculativo e simbolo della famiglia, quale concentrazione delle relazioni sociali. 
   Dagli studi di settore emerse che il totale delle abitazioni occupate e non occupate fu di 13.906, per complessivi 32.787 vani su una popolazione, riferita sempre al censimento del 1951, di 48.573 abitanti, pari a 0,67 vani per abitante: un rapporto, quindi, di circa il 70%. 
   Le case che si costruirono a Ragusa in questo periodo furono molto simili tra loro e per la maggior parte con ingresso dalla strada e uno sviluppo in verticale di due piani con tre stanze ognuno, oltre ai servizi igienici di misure non ampie; immancabili le scale in pietra pece per raggiungere gli spazi abitativi. 
   In alcuni casi, queste nuove abitazioni consentirono, a chi poté permetterselo, di uscire dalla casa-alloggio, in altre parole un’unica stanza con annesso lo stanzino per il gabinetto, anche se, a volte, al prezzo di spostare, al suo interno, più di un nucleo familiare. 
   Nella casa-stanza di un agricoltore, per esempio, una palizzata di legno separa il «posto-letto» dei genitori dal «posto-letto» dei figli, situato a fianco dei servizi igienici e di cucina; in un’altra casa, di due vani però, mangiano e dormono sette persone di due famiglie diverse
   All’esempio della casa-alloggio al piano terreno, tipico dell’Italia meridionale e che nel ragusano fu detto dammusu, ancora nel secondo dopoguerra permasero abitazioni troglodite, scavate in una parete dirupa: le casa-grotta. 
   Non ve n’erano numerose a Ragusa, mentre circa 2.000 a Modica e oltre 1.000 a Scicli. Un esempio tipico furono quelle di Chiafura a Scicli, descritte con gran­de efficacia nel romanzo Le città del mondo da Elio Vittorini: «Case da ogni parte su per i diru­pi, una grande piazza in basso a cavallo del letto di una fiu­mara, e antichi fabbricati ecclesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini». Quartiere molto popolato, fino all’emanazione della legge Romita sull’edilizia impropria del 1954: che decretò il definitivo abbandono del quartiere e il successivo trasferimento nel nuovo quartiere di Jungi. Catena a Modica, come pure la Cava d’Ispica, ancora a Chiaramonte, ma anche Ragusa ebbe alcune zone della città in cui circa 150 abitanti si adeguarono a questo tipo di sistemazione: condizione abitativa alternativa, non meno solida di quella realizzata in pietra o mattoni, meno esposta agli agenti atmosferici, sicuramente più facile a offrire spazi ampi. Alle grotte accenna pure Giuseppe Pitrè nella sua monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari d’Italia, ma per un diverso motivo: per ricordare che il nome «rivela l’origine e la natura delle abitazioni», in una specie di condominio ante litteram, tenuto conto del fitto reticolo di cavità artificiali, seppur un ambiente molto umido, poiché non furono rari gli episodi d’infiltrazioni pluviali. 
   Per il capofamiglia ragusano che riuscì a costruirsi la propria abitazione, principalmente il primo piano – con la speranza di soprelevare in un secondo tempo – il bilancio familiare iniziò a sgravarsi di una spesa non indifferente, quale l’affitto. Uno stretto connubio quello della casa e della famiglia per la società ragusana, che rimase indissoluto, ancora per un lungo periodo
   Del resto, un intervento importante nel settore si ebbe con la legge 4 novembre 1963, n. 1460, che consentì, mediante il contributo dello Stato, di realizzare un programma di edilizia popolare per un importo complessivo di 198 miliardi di lire in tre anni, sulla base di un tasso medio di contributo del 4,5%. A Ragusa fu assegnato, nel triennio 1964-66, un contributo di 941.440 milioni di lire, da impegnare sul territorio per la costruzione di nuove abitazioni
   Di fatto il ruolo della famiglia costituì la base della “unità sacrale”, favorita da uno speciale “codice d’onore”: il primario nucleo della collettività, basato sul ruolo ben preciso di ogni singolo membro, alle dipendenze del capofamiglia. 
   Una cellula che rispecchiò molte delle abitudini riguardanti le popolazioni che si affacciarono nel Mediterraneo, sviluppando nel tempo la base della società ragusana: un architrave del sistema più generale della comunità. Questa si prospettò verso nuovi sviluppi culturali, ma, al contempo, si richiuse in sé, ponendo, all’inizio, diffidenza verso le esperienze esterne, che pian piano avviò un processo di rottura con le tradizioni patriarcali radicate, tendendo a mutare, in tal modo, i valori della collettività ragusana. 
   Lo sviluppo sociale a livello nazionale che si ebbe nel corso degli anni Cinquanta, apportò anche in questa comunità dei primi cambiamenti incidendo, altresì, verso un iniziale senso d’indipendenza delle ragazze a contatto con una vita sociale più intensa, maggiormente nelle cosiddette «classi medie». Fermo restando, che la vita quotidiana della casalinga rimase gravata da una serie di faticosi impegni poco o per nulla riconosciuti e la cultura rimase, comunque, imbevuta di valori e parole d’ordine che mirarono alla “restaurazione” della famiglia tradizionale, in particolare a un saldo controllo del rapporto generazionale.
   Per la società maschilista locale, intrisa dalle origini mediterranee, la donna era sinonimo di madre di famiglia e casalinga, principalmente per evitare che contatti esterni potessero creare “scompiglio” all’interno della pace familiare. Difatti, fino a verso la metà degli anni Cinquanta fu difficile trovare delle donne impiegate nei vari settori lavorativi. La giustificazione principale fu quella riferita al fatto che in questo modo la donna avrebbe tolto un posto di lavoro a un padre di famiglia; senza aggiungere che di quella famiglia si sarebbe, anche, potuto dire che «il marito non fosse in grado di mantenere la moglie».
   Prevalente e in linea, quindi, con il resto del Mezzogiorno, la cui posizione di chiusura verso l’esterno intimato dal nucleo familiare, fu sempre rivolto a un alto senso di protezione. Atteggiamenti innati che segnalarono, tra l’altro, uno scarso senso associativo; la difficoltà di giudicare da un punto di vista diverso da quello dell’ambito familiare, evidenziò, inoltre, una notevole indifferenza nei confronti di eventi esterni.
   Un fermo immagine si mostrò maggiormente a Ragusa Ibla, in cui un’atmosfera da “sopravvissuti” aleggiò per un periodo di tempo.
   Le sue strade sono deserte a qualsiasi ora del giorno; le finestre e i balconi delle case sono chiusi; non vi sono negozi, né luoghi di ritrovo; non si incontrano bambini che giuocano, né donne raccolte a lavorare nell’uscio di casa, né uomini in piazza. In quest’atmosfera di silenzio sembra un appello lanciato nel vuoto anche l’insegna del «Circolo della Conversazione».
   In effetti Ibla è una città sopravvissuta, perché sopravvissuti sono i suoi abitanti: alcune vecchie famiglie di notabili che formano tra di loro un ambiente chiuso, praticamente inaccessibile, e che mal volentieri si mescolano col resto della popolazione.

   In questo periodo fu possibile affermare che da un lato l’originalità non fosse apprezzata, al fine di tenere alto il sentimento di moralità, rivolto soprattutto nei confronti di coloro non usualmente conosciuti, i quali furono tendenzialmente guardati con sospetto e per evitare eventuali scandali. Sommovimenti, comunque, furono pronti a emergere col passare del tempo e lo scorrere del decennio. Per ampliare il quadro dell’eterogeneità sociale, data del passaggio di numerosi forestieri e viandanti venuti maggiormente per questioni di affari che per turismo, è possibile fornire informazioni legate allo sviluppo alberghiero che ebbe la città a seguito degli episodi petroliferi, che diedero lo spunto per maggiori attività turistiche e commerciali. Dal 1951 la ricettività iniziò ad adeguarsi ai canoni nazionali, passando da locande di 4a categoria a strutture alberghiere di 1a e di 2a categoria, che diedero l’opportunità di 213 letti che disposero, inoltre, di oltre 100 bagni.

   Per quanto riguarda l’aspetto sanitario, ancora, le due strutture ospedaliere del capoluogo posero a disposizione 460 posti letto per la popolazione provinciale, inoltre, l’arrivo degli anni Cinquanta segnò la comparsa degli antibiotici adatti a sconfiggere la tubercolosi, che colpì oltre il 25% della popolazione, insieme alla brucellosi, per assenza di conoscenza della pastorizzazione del latte, oltre al morbillo e al vaiolo, anche per via delle condizioni igienico-sanitarie. Inoltre, l’assistenza da parte della Provincia ebbe la sua efficacia, grazie al primo accordo stipulato dal governo italiano con gli Stati Uniti, che previde aiuti per 25 miliardi di lire cui si aggiunsero 29 miliardi forniti dall’Italia per l’assistenza all’infanzia e agli anziani, oltre che ai più bisognosi. Un progetto che diede molto da fare agli assistenti sociali, cui si rivolsero numerosi cittadini, anche, per le più semplici informazioni e richieste di aiuto. A questi si affiancarono anche le opere religiose e l’Unicef con un ufficio provinciale.

   Quali mutamenti si riscontrano se si esamina la situazione nel 1957?
 Alcuni sono appariscenti. Il visitatore incontra trivelle e pozzi disseminati per l’altopiano e fin entro la cerchia cittadina, attraversa quartieri nuovi, può scegliere in quali dei nuovi alberghi soggiornare, può prendere il caffè in bar moderni, forniti del televisore. Se fa una passeggiata nel centro della città nuova di Ragusa, nel tardo mattino o nel tardo pomeriggio, scorge una certa animazione; nella buona stagione lo colpisce il passaggio di turisti, in comitiva o in piccoli gruppi e la relativa frequenza, sulle automobili, di targhe dell’Italia continentale, e, in particolare, dell’Italia del Nord, i cui proprietari, in massima parte rappresentanti di commercio, sono scesi a Ragusa per affari. Nell’ora del passeggio, nel tardo pomeriggio, passano davanti ai suoi occhi, oltre ai tradizionali gruppi familiari, gruppi di giovani non accompagnati. Per strada o al caffè gli accadrà di sentire parlate diverse da quella locale e non in bocca a turisti: sono i dirigenti e i tecnici forestieri, Americani del Nord o Italiani del continente, i quali risiedono in città per i loro lavoro.

Molto si parlò di: 

   Rimembranze letterarie e poetiche alla vista del mandorlo che fioriva ai piedi di una poderosa trivella. Chi si attendeva però che dalla scoperta del petrolio la cittadinanza ragusana ricavasse sostanziali benefici non ha potuto rimanere deluso. In realtà i ragusani, più che scontenti, sono esasperati.
   Epperò su di un giornale locale di tendenza governativa, apparso in concomitanza dell’arrivo della Commissione parlamentare, abbiamo potuto leggere un giudizio che era un rimprovero: «Ragusa, la città che ha sentito e vissuto l’avventura petrolifera, non è stata mai ricordata. Finora personalità e commissioni si sono succedute attorno alle trivelle, alle pompe, alle vasche di raccolta, all’oleodotto. Hanno osservato compiaciuti, nauseati dal puzzo, e poi sono tornati ai loro uffici». I ragusani, dunque, erano ormai stanchi delle visite e dei discorsi ufficiali degli uomini politici.
   Per decenni stuoli di picialuori lavorarono dall'alba al tramonto per estrarre dalle miniere ragusane la pietra pece; negli anni Cinquanta il poeta ragusano Vann’Antò, che ebbe il padre minatore, ne impresse il ritmo in questi pochi versi: 
O scuru vaiu, 
o scuru viegnu,
o scuro fazzu u santu viagghiu.

Al buio vado/ al buio vengo/ al buio faccio questo percorso (il viaggio, santo perché ricompensato dalla paga). 


N.B. per facilitare la lettura on line sono state omesse le note, che, invece, saranno complete nell'e-book che sarà possibile scaricare...

La fotografia riproposta da Tracce Storiche è una cartolina d'epoca ed è tratta da Foto dal post di Archivio Stato Ragusa



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