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31 luglio 2015

Giovanni Verga nostalgico catanese, fotografo dei perdenti

 Uno dei grandi scrittori italiani, anzi europei dell'Ottocento


Muovendo nel contesto della Sicilia di metà Ottocento, dello scrittore Giovanni Verga saranno portati maggiormente in rilievo alcuni aspetti in relazione col Risorgimento, con la società e con la politica nazionale, senza tralasciare il “rapporto” con i cosiddetti «perdenti», coloro che dal 1880 prevalsero nel suo ciclo di romanzi “I vinti”, che lo portarono alla piena celebrità, anche d’oltralpe.
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b2/Sebastianutti%2C_Guglielmo_%281825-1881%29_%26_Benque%2C_Franz_%281841-1921%29_-_Giovanni_Verga.jpg
    Giovanni Carmelo Verga, Giovannino per la famiglia, nacque nel Regno delle Due Sicilie, prematuro alla fine di agosto, a Vizzini, in “casine lontane dal centro abitato” e amabilmente battezzate “Villa Tepidi”, giacché la famiglia preferì allontanarsi dalla residenza di Catania, per scampare a una coda di epidemia colerica, che ebbe il suo picco nel 1837 e che si riaffacciò nel capoluogo in quell’estate del 1840.
    Il cholera morbus giunse in Sicilia nel 1835, proveniente dal continente e si propagò rapidamente per via di mancanze igieniche sia abitative, riguardanti maggiormente il ceto proletario, sia urbanistiche – nella maggior parte delle città, come nei villaggi, infatti, al centro o ai bordi delle strade secondarie furono lasciati gli scoli delle acque sporche – e, anche, per colpa di una malnutrizione diffusa; nonostante i cordoni sanitari, di fatto, neppure con l’approntamento dei lazzaretti per le quarantene si riuscì a debellare il morbo, in tempi rapidi.
    Giovannino crebbe in un ambiente liberale, di nobili origini, motivo per cui il padre lo volle rivelare in Catania il 2 settembre; il padre Giovanni Batista Verga Catalano piccolo proprietario terriero, appartenente al ramo cadetto di una nobile famiglia di origini spagnole, risalente al tempo dei Vespri siciliani – dall’originario nome di Vegas – e la madre Caterina Di Mauro Barbagallo proveniente da una famiglia borghese di Catania lo avviarono agli studi sotto la guida di Carmelino Greco e Carmelo Platania, per quanto riguardò le scuole elementari e le medie, e, poi, lo affidarono al patriota repubblicano “quarantottino” Antonino Abate, nella sua scuola privata[1], che lo avvicinò alle curiosità dei romanzi storici e alle poesie di carattere civile, pure di Domenico Castorina poeta e narratore catanese, anche se egli predilesse i romanzi francesi dei Dumas padre e figlio, di Eugène Sue e di Octave Feuillet.
   Alla fine degli anni Quaranta del XIX secolo, la Sicilia fu pronta, come in precedenza con i moti carbonari del 1820/21, a riprendere le lotte risorgimentali contro i Borbone – fautori della cancellazione nel 1816 del regno più antico, il Regno di Sicilia – e nel 1848 la rivoluzione europea scoppiò proprio dal capoluogo della Sicilia, il 12 gennaio[2]. La conclusione dei moti ebbe, di fatto, la conseguenza di accentuare il contrasto tra napoletani e siciliani indipendentisti, mentre, a livello europeo i moti avviarono le basi per l’unità dell’Italia del 1861, per la nascita dell’impero germanico del 1870 e per la perdita del potere temporale della Chiesa romana, già con le “Guarentigie” del 1871.
I nobili in genere non erano odiati dal siciliano, anzi il rispetto era tipico e diffuso. Il clero era davvero amato, mentre i nobili, i borghesi, il clero e la povera gente erano tutti contro il comune ed antico nemico, il governo di Napoli. Questi fu ritenuto la causa di tutti i mali e persino dell'epidemia di colera del 1854-1855, con molte vittime, specie a Palermo e Messina[3].
   Per questa pandemia a Catania il picco si ebbe in agosto. Sia i Verga sia i Di Mauro si rifugiarono nelle campagne di proprietà, verso Licodia Eubea, in contrada Tebidi, lontano dal centro abitato di Vizzini, per l’intero autunno di quell’anno nefasto:
L’epidemia di colera che flagellò la Sicilia nel 1854, provenendo da Napoli e Malta, causò, secondo prudenti calcoli, circa 27.101 vittime, cui vanno aggiunte le 17.136 per la recidiva del 1855. Sull’origine di tale morbo i Siciliani possedevano solo la certezza che esso, come la peste, “arrivava sempre dal levante”[4].
   Nonostante il contesto pieno di preoccupazioni vitali, ancora studente, nel periodo tra il 1856 e il 1857, Giovannino si cimentò nella prima stesura di un romanzo ambientato sulla guerra d’indipendenza americana, che intitolò, Amore e patria, molto "imbevuto" di patriottismo, sulla base degli insegnamenti ricevuti da don Antonino – peraltro, suo parente lontano – ma che non fu mai pubblicato, su consiglio del canonico Mario Torrisi che lo tenne sotto i suoi insegnamenti dal 1853 al 1857, insieme a Mario Rapisardi.
   Nel 1858 Giovannino s’iscrisse alla “Facoltà Legale” della Regia Università di Catania, per intraprendere l’attività forense, ma il piacere di poter emulare il nonno, militante carbonaro e, anche, deputato del Parlamento siciliano, lo portò ad arruolarsi dal luglio 1860 nella Guardia nazionale di Catania. Rimase fino al 1864 in quello che fu un corpo militare locale, formato da giovani provenienti da famiglie nobili e borghesi, che ebbe lo scopo di controllo sull’ordinamento economico e sociale, riguardo, anche, all’intervento nei confronti del banditismo postunitario.
   A Catania, il 31 maggio 1860, i rivoltosi capeggiati da Giuseppe Poulet e da altri liberali catanesi costruirono molte barricate per difendersi dalle truppe borboniche, al comando del brigadiere Tommaso Clary. Vi furono scontri cruenti nella zona del duomo e il comandante Clary si limitò a non fare avanzare gli attacchi dei rivoluzionari, e in quell’occasione si fece valere la figura di “Peppa la cannoniera”, Giuseppa Bolognani, che riuscì a sottrarre un cannone ai borbonici per metterlo a disposizione dei rivoluzionari. Fu, poi, l’azione decisiva del tenente colonnello Ruiz de Ballestreros a consentire l’intervento della cavalleria borbonica, grazie al cannoneggiamento delle case utilizzate come riparo dai ribelli, che dopo alcune ore furono messi in fuga. Successivamente, i rivoluzionari presero Catania e a Clary, con un ordine del 19 giugno del ministro della Guerra Winspeare, fu assegnato il Comando Superiore delle Truppe e de’ Forti della Guarnigione di Messina e della Provincia e Piazza, quando non venga destinato un altro Comandante di questa[5].
   Un riflesso interventista nel pieno del Risorgimento, dettato altresì dal desiderio di fare un’esperienza attiva, anche se la disciplina militare lo segnò, ma che permise a Giovannino di abbracciare gli ideali di fratellanza e di progresso che il vento nazionalista intraprese, ancorandosi alle illusioni di tanti meridionali.
   Dopo la conquista del Sud per opera del re di Sardegna e dell’Inghilterra – principale “azionista” della Spedizione dei mille – e la proclamazione dell’Unità d’Italia, Verga si dedicò maggiormente al giornalismo politico-culturale e alla letteratura.
   Agli inizi degli anni Sessanta del XIX secolo, la sua passione per la scrittura, comunque, lo allontanò dagli studi accademici e con l’approvazione familiare. Su questo filone, fondò la rivista «Roma degli italiani» assieme al maestro Antonino Abate e Nicolò Niceforo, con un obiettivo unificatorio contrario alle demarcazioni "regionaliste"; si dedicò anche ad altre due «L’Indipendente» e «Italia Contemporanea», seppure questa fosse un’esperienza di breve durata.
   Nel luglio 1859, mentre nel quadro nazionale, a Villafranca, con la firma del trattato tra Napoleone III e Francesco Giuseppe, si sigillò la fine della Seconda guerra d'indipendenza, in quel periodo, per la famiglia Verga i soldi, che avrebbero dovuto servire per terminare gli studi universitari di Giovannino, furono investiti per la pubblicazione del suo primo romanzo storico, ma dai confini aperti, I carbonari della montagna, che uscì nel 1861. Articolato su quattro volumi, due dei quali finiti di stampare nel 1862, l’opera ebbe a rievocare l’opposizione della carboneria calabrese del 1810 nei confronti di Murat e di Ferdinando IV di Napoli.
   Dopo questo suo lavoro alimentò l’attività e nel 1863 pubblicò Sulle lagune, una storia romanzata a base di amore e patriottismo, nella rivista mazziniana «La Nuova Europa» di Firenze, diretta da Alberto Mario. La morte del padre in febbraio lo portò a maturare l’idea di “sprovincializzarsi” e nel maggio-giugno 1865 si spostò proprio a Firenze, nuova capitale d’Italia – politica e letteraria – dove, al momento, permase per pochi mesi.
   Fu lo scrittore e patriota Francesco Dell’Ongaro a introdurlo nei salotti culturali fiorentini, luoghi frequentati anche dallo storico Pasquale Villari e dal filosofo Giuseppe Ferrari: in una Firenze che diede spazio all’editoria di tipo imprenditoriale, che sostituì le piccole tipografie. In quei periodi, Verga frequentò anche il caffè letterario di Firenze “Doney” e il Caffè Michelangelo, luogo di ritrovo dei pittori che dipinsero “a macchie chiare e scure accostate e della natura vista dal vero”, cosiddetti «macchiaioli», antesignani degli impressionisti francesi.
   In questo lasso di tempo tornò e si fermò spesso a Catania, dove nel 1866 scoppiò un'altra colerica epidemia, dilagata a Palermo, proveniente da Napoli e principalmente dai porti del Sud della Francia di Tolone e Marsiglia, via Genova. La famiglia decise, allora, di allontanarsi da Catania, per trarre riparo in un'altra tenuta a Sant'Agata Li Batiati. In quell'epoca pubblicò il romanzo, su base epistolare Una peccatrice, ambientato a Napoli e in una Catania postunitaria – abbandonando, quindi, i temi dedicati al patriottismo – in cui descrisse una fugace e passionale storia romantica, dai tratti autobiografici, riguardo la crisi predominante tra una sua infatuazione e la ricerca di notorietà in campo letterario. Dal 1869 risiedette stabilmente in Firenze, dove conobbe il compaesano Luigi Capuana, al tempo critico teatrale del quotidiano “La Nazione”, che divenne suo fraterno amico.
   Già con l’avvento degli anni Settanta del XIX secolo si rese concreto lo sviluppo del neo regno italiano maggiormente in Piemonte. Da questo decennio fu forte, infatti, l’emigrazione meridionale alla ricerca di una prospettiva migliore, che, dall’esito dei numeri, i Savoia non seppero dare, in maggior misura alle donne e agli uomini del Sud d’Italia. Attorno a quattordici milioni furono, in realtà, gli italiani emigrati dal 1876 e fino all’avvento della Prima guerra mondiale. La maggior parte dei “connazionali” si diresse in Europa, si calcolò il 64% degli emigrati: Francia, Austria-Ungheria, Svizzera e Germania quelle più scelte; mentre fu nel decennio successivo che approdarono – dopo due settimane di navigazione – nelle Americhe: fu maggiormente il Brasile e l’Argentina ad accogliere questi italiani, fermorestando, che già dal 1870 gli Stati Uniti aprirono all’immigrazione lavorativa[6].
   Pasquale Villari, con altri, evidenziò da subito lo stato di grande arretratezza della plebe del Mezzogiorno postunitario: la rigidezza amministrativa irriguardosa di mentalità e tradizioni, instaurata dai piemontesi[7], oltre a condizioni legate alla mancanza di terra e, soprattutto, ai “pesi” su di essa, che i contadini, da sempre, lamentarono a causa del concetto latifondistico di suddivisione dei territori nel Meridione. L’analfabetismo e la povertà del ceto rurale – immobile da secoli – portarono questi italiani a vedere l’emigrazione come fosse “la via di uscita”, per provare nuove strade da percorrere all’estero.
Il Regno è finito. Il Regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America. Anche l’America ha, per i contadini, una doppia natura. È una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco danaro è risparmiato con stenti e privazioni, dove qualche volta si muore e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo e senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno[8].
   Anche Verga, che trascorse il suo tempo a Firenze fino al 1872, decise di “emigrare” a Milano, divenuto il centro culturale ed editoriale dell’Italia postunitaria.
   Prima del trasferimento nella città lombarda, nel 1871 pubblicò un altro romanzo dal tema sentimentale, Storia di una capinera, il cui sfondo vide la particolare situazione del monachesimo forzato e le discussioni che nacquero a seguito della soppressione dei conventi, avvenuta nel 1867. Ebbe un notevole successo inizialmente nella rivista per signore «La Ricamatrice» e pertanto l'editore Lampugnani decise di pubblcarlo in volume. Giunto nel centro lombardo, frequentando i caffè letterari e i vari salotti milanesi, ebbe modo di confrontarsi con esponenti della cosiddetta «scapigliatura», tra cui Arrigo Boito, famoso librettista di opere liriche.
   Fu, di fatto, un incontro che lasciò un'impronta nel pensiero verghiano. Gli scapigliati, del resto, non furono solo milanesi e non furono neanche così numerosi: un gruppo di artisti e di scrittori “anticonformisti”, che richiesero un più intimo contatto con il mondo reale e una maggiore aderenza alla vita quotidiana. Nel loro ideale, principalmente, emerse il contrasto con la classe borghese, evidenziandone un continuo fermento, nonché l'affievolirsi degli eroici bagliori del Risorgimento.
   Queste frequentazioni oltre ai salotti mondani, come quello della contessa Clara Maffei, e l'avicinamento dell'editore Treves, insieme ad altri sviluppi, tra cui, la corrente letteraria d'oltralpe del momento, il «naturalismo», aprirono allo scrittore siciliano un altro modo di vedere le cose e di scrivere, portandolo ad abbandonare il suo stile per abbracciarne uno nuovo.
   Proseguì, comunque, con la pubblicazione di Eva nel 1873 e di Eros e Tigre reale nel 1875, riguardanti vicende amorose e sconfitte esistenziali, che lo portarono a riscuotere un notevole successo, potendosi affermare come romanziere apprezzato nella Milano di quel tempo.

fine prima parte





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[1] Nel 1831, la continua carenza di fondi comunali autorizzò la soppressione delle scuole non necessarie. Antonino Abate fu sia proprietario sia docente di questa scuola privata, che ebbe tra i banchi il Verga dal 1851 al 1858.
[2] Quasi un secolo dopo la liberazione dell’Europa, stretta nella morsa nazifascista, partirà proprio dalla Sicilia.
[3] Cfr. E. Parabita, Napoli, fine di un regno anico, Tricase, Youcanprint, 2014, p. 220.
[4] Più in generale cfr. Archivio Storico Comunale di Catania, Colera e rivoluzioni in Sicilia: due sciagure dentro e fuori i monasteri tra le lettere dei Verga (1854-1866), Mostra documentaria e seminario, 25 settembre-4 novembre 2010.
[5] Cfr. Archivio di Stato di Napoli - Fascio 1154, Corrispondenza del Re Francesco II con i Militari, Affari di Sicilia / aprile-giugno 1860, lettera n° 741.
[6] Per maggior approfondimenti cfr., Museo Nazionale Emigrazione Italiana, L’emigrazione di massa (1876-1915).

[7] Imposte esose, leva obbligatoria con ferma quinquennale, presenza continua di bersaglieri e carabinieri contro il brigantaggio, abolizione degli usi delle terre comuni.
[8] C. Levi, Le mille patrie: uomini, fatti, paesi d’Italia, G. De Donato (a cura di), Roma, Donzelli Editore, 2000, p. 16.

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