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8 giugno 2014

Michele Palmieri di Miccichè cadetto dallo spirito libero: un incontro interculturale


Fu nel centro del triangolo della Sicilia, tra Palermo, Agrigento e Caltanissetta che ebbe vita una particolare esperienza culturale dalle radici siciliane, apprezzata nel resto d’Europa.
   L’artefice, un certo don Michelino: un vero scapestrato, che dagli inizi dell’Ottocento diede del “filo da torcere” alla sua famiglia e non solo; per questi eventi il luogo d’origine è raffigurato in Villalba: un piccolo “villaggio” nel cuore della Sicilia, dove le prime case sorsero nel 1763 attorno al caseggiato dei baroni del feudo, il cui nome di origine araba è Mikiken.

   Michele quarto nato dei sette figli di don Placido Palmieri barone di Miccichè e marchese di Villalba, la cui madre fu la figlia del barone di Trabonella, ricco proprietario di miniere di zolfo nel territorio di Caltanissetta, vide la luce nel 1779 a Termini Imerese: nella casa di campagna posta al versante dell’altura, giusta direzione dal “castello” di Villalba, nominato “la Roba” dalla famiglia.
   Sin da giovane don Michelino non accettò il ruolo di “cadetto”, che la società dell’epoca gli riservò. Egli fu, infatti, molto insofferente nei confronti del padre per la crudezza che ebbe verso i figli; la durezza dei modi di agire di don Placido – nobile superbo e tirannico che visse nello sfarzo e nelle comodità all’epoca disponibili – obbligò una figlia a farsi monaca, due fratelli di Michele impazzirono e gli altri due divennero carbonari sovversivi, a confronto delle attenzioni rivolte a Nicolò, il primogenito cui sarebbe spettato ereditare oltre “la Roba” anche gli altri beni di famiglia. Marx definì: «Il senso politico della proprietà» così il mayorazgo, un istituto che dalla sua attuazione, nella Spagna del XVI secolo, permise di lasciare molti beni in mano a poche famiglie e bisognò attendere gli inizi del XIX secolo in cui il codice napoleonico, di fatto, riuscì ad abolire questo strumento giuridico, permettendo la successione tra tutti i figli, in modo égalitariste.
   L’arrivo del nuovo secolo diede parecchi stimoli al ventenne Palmieri che trascorse, comunque, la giovinezza all’insegna della continua mancanza di denaro, giacché il padre gli concesse solo il minimo indispensabile. Egli, nonostante ciò, non si limitò in sconsideratezza, come pure negli eccessi – giustificati dal rango – che gli permisero, tra l’altro, diverse sfide a duello a tutela di tutto quello che gli passasse per la testa in quel momento: battendosi per parenti e amici, per giovani e vecchi, per i servi come per la figura del sovrano; certo, considerato il perenne stato d’indigenza, diversi furono i duelli per debito di gioco, altri coperti da parenti o amici compassionevoli.
   Le conoscenze del padre che lo soprannominò, appunto, “lo spadaccino”, lo portarono, in ogni caso, a provare le punizioni della rinomata “Quinta Casa” di Palermo: un collegio che fino al 1778 fu diretto dai gesuiti e che, a seguito della soppressione dell’Ordine, divenne anche casa di correzione oltre a caserma di cavalleria e ospizio per i poveri, infine, una scuola. Fu anche “ospite”, più volte, della fortezza di Castello a Mare[1] e inoltre, per evitare di rientrarvi, decise di arruolarsi nell’esercito inglese a difesa del “suo” re Ferdinando III – rifugiatosi in Sicilia proprio quel 1806 – che, però durante il servizio militare, lo rese indisciplinato sino a diventare dichiaratamente antiborbonico, per via della politica avversa alla Sicilia adottata dal sovrano, a tutela principalmente di Napoli ma anche a difesa di Gaeta, senza fare alcuno sforzo per ingraziarsi l’isola ospitante.
   Durante questa permanenza del re a Palermo, nel 1811, sbarcò lord William Bentinck a “protezione” del Borbone e a difesa dai francesi napoleonici, nell’intricata matassa siciliana e nel 1812 – che fu un anno di travagliate metamorfosi per l’isola – Michele Palmieri ricercò amicizie politiche, volte alla concessione della nuova costituzione al regno di Sicilia, che lo presentarono al generale Bentinck e di cui divenne amico; la costituzione, difatti, in agosto fu approvata, con annessa l’abolizione del feudalesimo, senza togliere, però, molti privilegi e interessi alla nobiltà siciliana[2]. In questo periodo, il Palmieri a seguito delle amicizie strette in Sicilia decise di andare a visitare la capitale del regno di Napoli, allora governata da Murat, cercando di avvicinarsi agli ambienti carbonari formatisi numerosi nella città in funzione antifrancese e i quali, fomentati da Bentinck ormai plenipotenziario della Sicilia, furono avviati verso una maggiore idea costituzionalista, anziché assolutista.
   L’anno successivo, si arruolò nuovamente con l’esercito inglese e portato fino in Spagna, nella guerra contro le truppe napoleoniche, ma in quest’occasione ebbe modo di comprendere meglio il gioco “sporco” e la politica degli affari inglese, attuata nei confronti dei siciliani e del re Borbone. Fu, appunto, dopo la Restaurazione, esito primario del congresso di Vienna, che gli impegni politici del Palmieri volsero ad accentuare il senso di tutela nei confronti dei contadini e dei più vulnerabili, anche come senso di ritorsione nei confronti del tenore della famiglia, sino a giungere al 1816, anno in cui con Ferdinando I nacque il regno delle Due Sicilie, a seguito della definitiva abolizione dei due regni e con l’idea di dare nuova forza a Napoli rieletta capitale, senza che sia stato considerato, però, l’insorgere di un movimento antinapoletano, che da Palermo si ampliò in tutta l’isola e si mantenne vivo fino ad attendere l’arrivo di Garibaldi.
   Con l’abolizione dello storico regno di Sicilia – di origini medievali – nell’isola vi fu una sorta di fioritura delle attività, dettata dall’influenza di modernizzazione avviata da Murat nel napoletano e dall’incidenza del protettorato inglese, che spinsero Michele Palmieri ad accentuare in sé tendenze liberali e che, peraltro, lo portarono a continui contrasti col padre, decidendo di andare a vivere a Palermo nel palazzo Comitini in via Maqueda[3], dove iniziò a coltivare la passione letteraria francese, che avrà modo di approfondire “grazie” all’esilio subìto, per aver partecipato ai moti rivoluzionari del 1820.
   In quell’epoca, anche a Villalba arrivò il vento insurrezionale e si combatté alacremente nella battaglia del monte Babbaurra, del 12 agosto 1820, per la conquista di quel punto strategico a cavallo tra San Cataldo e la borbonica Caltanissetta. Agli ordini del principe Salvatore Galetti di Fiumesalato, insieme al capitano Rodrigo Palmieri, suo fratello, il maggiore Michele Palmieri circondò con un drappello di uomini il monte, mentre il fratello rimase ferito a una spalla; nel pomeriggio, il maggiore Palmieri ordinò di attaccare frontalmente il monte, riuscendo a mettere in fuga i nisseni e a impadronirsi del monastero di Santa Flavia, che i benedettini scelsero, poiché la vista dominò la collina di Caltanissetta.
   Gli esiti insurrezionali non furono definitivamente favorevoli e il maggiore Palmieri fu condannato all’allontanamento dal regno delle Due Sicilie, per giungere in esilio in Francia, dove i percorsi politici del Palmieri arrivarono a conoscenza delle varie gendarmerie, che lo resero degno di attenzione e di corrispondenza “riservatissima” con la polizia borbonica: per cospirazioni, imbrogli e intrighi politici con i carbonari, anche a seguito di rintracciati contatti con Mazzini in persona, per corrispondenza proveniente da Marsiglia.
   Egli, ciò nonostante, ebbe modo di viaggiare per l’Europa, riuscendo a frequentare svariati salotti mondani, essendo considerato un affascinante narratore: un’attività che seppe sviluppare grazie alle esperienze vissute nella sua Sicilia e che lo fecero conoscere agli ospiti dell’italiana Giuditta Negri, la più celebre cantante lirica del XIX secolo, moglie del tenore Giuseppe Pasta.
   Tra i frequentatori dei salotti ebbe modo d’incontrare Stendhal – al secolo Marie Henri Beyle – con cui strinse una forte amicizia, ma anche Dumas padre ebbe modo di apprezzare le doti del nobile siciliano. Grande amatore, ebbe a deliziare numerosissime donne, che assieme all’innata passione del gioco lo fecero considerare un gran viveur.
   Palmieri, tuttavia, fu molto sincero con Stendhal, con un’amicizia legata anche all’ammirazione per lo scrittore francese e che lo stesso Stendhal ricambiò, riportando brani descritti dall’aristocratico siciliano nel famoso libro La Certosa di Parma.
   Dagli inizi degli anni Trenta, cercando di mettere a frutto le conoscenze avute in Francia e spostatosi a Ginevra, iniziò quell’emigrazione culturale che lo portò a scrivere e far stampare i manoscritti, dapprima in italiano e che, poi, decise di far pubblicare direttamente nella langue de la diplomatie.
   Essendo un personaggio capace di interpretare i vari modi di vivere la vita, avendola anche provata nei suoi momenti più crudi e in quelli più piacevoli, sapendo passare dal gioco, all’amore, alle armi e anche molto lesto nell’imparare, egli si avventurò in due testi autobiografici: il primo fu Pensées et souvenirs historiques et contemporains. Suivis d'un essai sur la tragedie ancienne et moderne, et de quelques aperçus politiques del 1831, in cui l’autore descrisse dei suoi percorsi, della sua famiglia, allargando lo scenario al panorama sociale presente nella Sicilia dell’epoca: riguardo alla nobiltà, senza tralasciare il mondo agricolo dei contadini e aggiungendo anche dei briganti; il secondo arrivò più tardi Moeurs de la cour et des peuples des Deux-Siciles, pubblicato nel 1837, riguardò un ambiente più altolocato, poiché descrisse della corte e di re Ferdinando, che poco amò la vita politica e in cui ebbe maggior incidenza Maria Carolina d’Asburgo; del periodo di permanenza in Sicilia, al Palmieri molto più conosciuto, e della seconda consorte Lucia Migliaccio duchessa di Floridia, vedova, anch’essa, del principe di Partanna. Il Palmieri in questo testo descrisse anche di Horace Nelson e dell’amante Emma Lyon, sposa dell’ambasciatore britannico Wlliam Hamilton, racconti d’intrighi e relazioni, care all’autore – noto donnaiolo – tra nobili e generali con dame di corte, in cui nei salotti bene di Palermo se ne riempirono le serate. Nel testo, numerosi, altresì, gli epiteti nei confronti del potere borbonico, in cui fu giudicato negativamente anche il potere aristocratico siciliano: causa del ritardo intellettuale e dello sviluppo dell’isola.
   Riuscì a far pubblicare nel 1831 Le Duc d'Orléans et les émigrés français en Sicile, ou les italiens justifiés e nello stesso anno A chacun selon sa capacité, à chaque capacité selon ses oeuvres ou le faux-doctrinaire et le libéral; nel 1832 Le Nouveau Gargantua, vieux manuscrit italien anonyme, trouvé dans les fossés des Tuileries, contenant une esquisse biographique et un drame, tre testi in cui polemizzò nella maggior parte nei confronti del duca Luigi Filippo e che gli procurò una certa fama, poiché riuscì a portare nei vari salotti questo suo pensiero. L’anno successivo scrisse Les Carbonari un’opera sull’argomento, che fu considerata minore.
    In queste epoche, Michele Palmieri di Miccichè pubblicò all’estero libri in francese, cercando, attraverso le sue citazioni, di “sdoganare” il pensiero libero di una Sicilia in fermento, nonché la vitalità letteraria dell’isola e testimoniando sulla vita di una famiglia siciliana in regime di maggiorascato, dove non poté esistere alcun legame di affetti e in cui tutti i membri ebbero interessi contrari. Allo stesso tempo, mentre in quel 1837, in cui uscì Moeurs... – nello stile nostrano più tipico – le cronache locali narrarono di don Nicolò Palmieri di Miccichè marchese Villalba, quale prototipo di principe illuminato di Caltanissetta, “il terzo barone, a suo modo moderno che aveva introdotto nuove culture, ed era stato artefice di uno sviluppo relativo, per i tempi; paternalista e tollerante, ma rigido con chi non fosse delle sue idee” (M. Tropea, 2012). Ebbene sì, quel Nicolò primogenito, che solo lui ebbe “la Roba”, degno di portare avanti il nome e il casato di Villalba.
   Una testimonianza della cultura conservatrice che non riuscì ad aprire ai nuovi stimoli di formazioni intellettuali, seppur con ataviche abilità di fiutare i venti di un rinnovamento, ma con le preoccupanti capacità di mutare il presente e mettere in crisi le certezze conquistate o ottenute per sfinimento, a seguito di regali segnalazioni, come rappresentate dal fausto manoscritto di Tomasi di Lampedusa.
   Nel 1838, il Palmieri cercò di rientrare in Italia, con il desiderio in pectore di poter “baciare” il suolo natio. Alloggiò a Firenze, già luogo di residenza del fratello Rodrigo; si spostò, in seguito, a Livorno e a Napoli, dove permase negli ultimi periodi di vita del fratello maggiore Nicolò. Nel 1844 poté rientrare finalmente in Sicilia e rivivere i luoghi spunto delle narrazioni dei testi pubblicati; senza tralasciare il suo spirito liberale, si mise a disposizione per l’organizzazione dei moti del 1848, riuscendo a coinvolgere i palermitani assieme a “Rosalino” Pilo, un giovane aristocratico che frequentò spesso a Villalba.
   Nel 1864 morì, dopo aver gioito della visione dei garibaldini e del loro generale, senza avere più il pensiero economico, che lo assillò per molto tempo nei periodi della gioventù.
   Di lui scrissero storici e autori del calibro di Benedetto Croce, come Leonardo Sciascia, ma anche d’oltralpe quale Dominique Fernandez, nonché Alexandre Dumas e Stendhal, finché nel 1976 il professor Nicola Cinnella, che approfondì gli studi sui fuorusciti italiani della prima metà dell'Ottocento, decise di rendergli omaggio pubblicando una biografia del personaggio in Michele Palmieri di Miccichè, poco noto ai più, ma che riuscì a portare, in quei momenti embrionali del Risorgimento, uno spaccato della Sicilia oltre confine, cercando, altresì, di lasciare ai cittadini di Villalba l’opportunità di offrire un altro punto di vista dell’essere nobile villalbese, a differenza di come regolarono le condizioni di vita locali i familiari don Placido e don Nicolò.




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[1] Simbolo della difesa della città di Palermo, data la sua posizione strategica, ma nonostante le accorate insistenze della parte intellettuale e dei rappresentanti della “Società di storia patria”, nel 1923 fu demolito questo monumento plurisecolare.
[2] Nella legge costituzionale del 1812, difatti, emanata dal Parlamento Siciliano, fu detto dell’abolizione della feudalità, ma nella novella degli articoli, s’intese che i feudi siano stati in realtà semplicemente trasformati in proprietà private, a disposizione dei nobili.
[3] Un palazzo Palmieri era sul corso Tukory, tra via Monfenera e via Feliciuzza. Con l’arrivo del “miracolo economico” fu demolito e con esso fu cancellata una parte della storia della città.

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