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10 settembre 2015

Giovanni Verga nostalgico catanese, fotografo dei perdenti

Uno dei grandi scrittori italiani, anzi europei dell'Ottocento


L’ambientazione siciliana e l’utilizzo di personaggi dalle umili origini furono la scenografia che accompagnò la realizzazione dei nuovi romanzi dello scrittore siciliano. Senza dubbio, partendo dallo scambio di opinioni avuto con gli scapigliati milanesi e dalla vicinanza del suo amico Capuana, Verga giunse ad affrontare nuovi aspetti della sua scrittura, assieme alla volontà di rappresentazione del vero.
   Il romanziere dal 1874, di fatto, si allontanò definitivamente dai temi patriottici e dalla mondanità milanese dell’alta società, per rappresentare, attraverso i suoi scritti, verità non a tutti conosciute, con lo specifico scopo di mostrare la realtà da un altro punto di vista. Un nuovo pensiero letterario tratto da quella fusione legata a numerosi scambi di opinione tra naturalismo e positivismo avuti col compaesano Capuana, che portò Verga a rappresentare un altro filone, cosiddetto «verismo».
   La rilettura degli scritti di Emile Zola portò Verga a profonde riflessioni, tanto che divenne un gran divulgatore delle nuove teorie naturaliste francesi. Concorde, inoltre, con l’analisi critica che animò Francesco De Sanctis nei confronti di questa nuova impostazione poetica, al punto di esaltare questa spersonalizzazione degli scritti, affinché fossero le cose stesse a parlare. De Sanctis arrivò ad affermare però:
Comparisce il socialismo nell’ordine politico, il positivismo nell’ordine intellettuale [...] una seria preparazione di studi originali e diretti in tutt’i rami dello scibile guidati da una critica libera da preconcetti e paziente esploratrice[1].
   Lo scrittore siciliano, intanto, nel 1874 da Milano pensò di ritornare in Sicilia, anche a causa d’incomprensioni sorte con l'editore Emilio Treves che gli rifiutò di pubblicare Tigre reale ed Eros. Nel carnevale di quell’anno, ebbe, comunque, chiara la scenografia di una nuova novella, cui pose lo sfondo del mondo contadino e dei suoi ritmi lenti: un netto contrasto con la vita mondana e frenetica degli anni milanesi. Pubblicò Nedda – che molti critici letterari indicarono come primo romanzo di stile verista – maggiormente, riguardo all’intenzione dell’autore di spostarsi dal romanzo patriottico, di stile avventuroso, verso l’inizio di quello ambientato nel mondo contadino della Sicilia; nei fatti, la novella ebbe come uniche novità l’ambientazione nella sua terra e i personaggi di origini proletarie, ancora agli albori dalla dottrina verista verghiana, che pose alla base i criteri d’impersonalità e oggettività, “sdoganati” dal naturalismo d’oltralpe.
   L’esperienza fiorentina e quella milanese gli permisero di scrivere per un pubblico più ampio, che decise di indirizzare verso il “fatto schietto”, obiettivo che egli s’impose nella sperimentazione delle narrazioni successive. La scomparsa del narratore dalla scena e, quindi, l’esaltazione dell’impersonalità in uno sguardo asciutto, che bandisse qualsiasi commento dell’autore, come pure, il rifiuto dell’assunzione diretta del dialetto cercandone una sintassi italiana che approfittasse, però, del modo di dire dialettale furono le operazioni intellettuali che lo scrittore siciliano elaborò in questi periodi.
   In contrapposizione al naturalismo francese, che evidenziò maggiormente un aspetto più scientifico dell'approccio scenografico, applicando, quasi, al romanzo gli assiomi della medicina sperimentale, il verismo di Verga volle fare della narrazione un mezzo di osservazione della realtà, in cui si leggesse la vita nella sua concretezza, motivo, tra l’altro, per cui volle rinunziare al dialetto per aprirsi a un più vasto pubblico. Col tempo, oltre a ciò, Verga si distanziò dalla scienza, criticando anche il progresso, per dare più peso alla conservazione ideologica[2].
   Dall’inizio della sua attività sino al momento in cui arrivò a fare queste scelte, per Verga, sicuramente, alcuni fattori ebbero un notevole rilievo positivo, per lo sviluppo di questo nuovo filone letterario: uno fra tutti fu l’amicizia con Capuana – a quel tempo critico letterario del “Corriere della Sera”[3]. Questi lo convinse a raggiungere Milano e da lì, di fatto, si aprirono nuove visioni. La complicità, frutto della sentita amicizia di Capuana verso il compaesano[4], portò a segnalare la necessità di un attento studio dei lavori di Zola, al punto di incidere notevolmente sullo sviluppo letterario verghiano[5].
   Un altro fattore di rilievo che diede notevole accrescimento al nuovo filone verghiano fu il suo regionalismo, la sua amata Sicilia e soprattutto, il provincialismo legato al territorio di Catania. Agli inizi di questa nuova avventura egli, però, non ebbe il successo sperato, poiché il pubblico, cui Verga si rivolse precedentemente, riguardò maggiormente la classe borghese, che nel periodo postunitario necessitò di maggiori affermazioni dei principi e dei valori legati al Risorgimento. Con i nuovi romanzi e con quelli che seguirono, l’autore pose in rilievo continue “istantanee” di quello che potesse circondare un borgo di pescatori o, comunque, ambienti umili, più intrisi di tradizioni agresti che non quanto fosse il “chiacchiericcio “ nei salotti milanesi, con beghe di alta società o avventure cavalleresche, come romanzate dai Dumas.
   A tal proposito, nel 1877 in molti discussero sull’inchiesta siciliana – uno studio portato avanti da due coetanei toscani, intellettuali liberali conservatori, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, raccolto nel volume La Sicilia nel 1876 – dove furono delineati i livelli sociali dell’isola dopo quindici anni di regno piemontese, e che prese il via con queste parole:
Ricevuti in Sicilia da ogni ordine di persone colla cortesia la più squisita, e con un’ospitalità di cui serberemo sempre memoria, sentiamo il debito di dichiarare fin dalle prime pagine di questo libro, quali sono i concetti che ci hanno guidati nei nostri studi sulle condizioni di quell’Isola. Noi abbiamo inteso d’indagare le ragioni intime dei fenomeni morbosi che presenta la Sicilia, e di ritrarre un quadro succinto delle sue condizioni sociali, così diverse da quelle di alcune altre regioni del nostro paese... Esprimendo in ogni singolo caso la nostra opinione schiettamente e senza reticenze o falsi riguardi di convenienza, crediamo di dimostrare nel miglior modo possibile la nostra gratitudine verso i Siciliani, e abbiamo fede di giovare all’Isola più coll’esposizione della verità che non coll’adulazione. Non ci siamo lasciati distogliere dal timore di esser tacciati d’arroganza, perché trattandosi di quistioni che interessano l’avvenire del paese, riteniamo che ogni cittadino abbia lo stretto dovere di dire apertamente la propria opinione.
   Il lavoro tratteggiato dai due intellettuali fu una fotografia di una Sicilia lasciata nelle mani di una nobiltà “gattopardiana” che, tra l’altro, tenne bloccati i contratti di affitto della terra senza dare ai contadini grandi possibilità, se non sperare di non poter peggiorare di molto la propria condizione di miseria. Dove, inoltre, emerse, già allora, la “distanza” dei cittadini dalla giustizia. Di questo, i due intellettuali toscani evidenziarono, per esempio, che in quell’epoca i cittadini della provincia di Siracusa, per tutelare i propri diritti, avrebbero dovuto recarsi sino a Palermo, sede della Corte d’appello designata, mentre avrebbero potuto risolvere a Catania le proprie liti giudiziarie, sede dell’altra Corte d’appello, sicuramente più vicina.
   L’intervento di determinate forze volte a far sviluppare gli eventi in un modo stabilito, in fondo, prevalsero sia a confronto delle necessità evidenti della classe sociale meno abbiente e in definitiva del popolo siciliano, sia a mantenere uno stato di cose a livello preunitario; giuste le parole del Tommasi di Lampedusa fatte esprimere al vecchio don Fabrizio: «Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra». A questo, si aggiunse la preoccupazione per il brigantaggio, il livello di analfabetismo elevato e il ripetersi di condizioni durissime a carico di contadini, pescatori, operai e minatori delle zolfatare dell'ennese, come denunciate sul posto da un sacerdote calatino, don Sturzo.
   Nel 1878 Verga pubblicò Rosso malpelo, in cui maggiormente trasparvero i contenuti dell’inchiesta siciliana, cui seguirono altri racconti, tra cui Fantasticheria, una novella programmatica e metanarrativa in cui comparve l'espressione nota «l'ideale dell'ostrica»[6], che si aggiunsero a quella che fu la raccolta “Vita dei campi” del 1880. Nel 1881 per i tipi di Treves uscì I Malavoglia, che portò lo scrittore siciliano all’apice del filone letterario verista. Nella quotidianità, egli, però, dovette continuare a pubblicare alcuni romanzi legati al mondo dell’alta società milanese per mantenersi nella capitale lombarda, poiché il pubblico legato alla corrente verista – come spesso avviene nelle innovazioni – non fu numeroso. Nel 1882 pubblicò Il marito di Elena, nel 1883 Per le vie e nel 1884 Drammi intimi. Sino a giungere alle Novelle rusticane che ripresero il filone verista e terminare con Mastro don Gesualdo che uscì nel 1888 su «Nuova Antologia», a chiusura del ciclo riguardante “I vinti”.
   Nel quadro nazionale, l’Italia del 1887 ebbe il siciliano Francesco Crispi alla guida nazionale e con varie interruzioni, fino al 1898; la situazione sociale nell’isola, tuttavia, fu compromessa a partire dai dati forniti dal censimento del 1881: un peggioramento della produzione agricola incise notevolmente sullo sperato sviluppo locale.
   In questa situazione, se Verga volle tratteggiare i suoi protagonisti agresti romanzandone le avventure, un altro personaggio – meno noto alla compagine nazionale – ne descrisse i tratti reali con pregi e difetti simili alla maggior parte della “categoria”. Fu Serafino Amabile Guastella, nobile di Chiaramonte Gulfi, nel testo pubblicato nel 1884 a Ragusa, La parità e le storie morali dei nostri villani[7], che riuscì ad animare il dibattito aperto da Sonnino e Franchetti sulla questione contadina in Sicilia, peraltro, non tanto distante da quella del resto dell’Italia.
   Nel 1876 – anno di pubblicazione dell’inchiesta siciliana – Guastella, nondimeno, pubblicò Canti popolari del Circondario di Modica, dove, tra l’altro, nel narrare del “canto delle messe”, evidenziò il tratto ribelle del bracciante. In quel momento dell’anno, nello svolgimento, cioè, della mietitura, ne descrisse il risveglio dell’animo rivoluzionario a riscatto degli abusi sopportati nei confronti dei patruni; Verga ne trasse spunto per illustrare i dolenti fatti di Bronte del 1860, rievocati in Libertà pubblicato sulla «Domenica Letteraria» nel 1882, inserito, poi, nella collana delle “Novelle rusticane”. Un'occasione per Verga, che in quell’epoca, pur vivendo a Milano, riuscì a far protrarre l’interesse dei lettori nazionali per i fenomeni storici e sociali della Sicilia.
   All’inizio del nuovo decennio, un giovane Pietro Mascagni, molto poco conosciuto, volle musicare un’opera che prese spunto dalla raccolta “Vita dei campi” e nel teatro Costanzi di Roma fu rappresentata l’opera lirica Cavalleria rusticana, la quale – oltre al successo di pubblico avuto, già dal 1884, nel teatro Carignano di Torino della rappresentazione teatrale[8] – ebbe altrettanto successo, ma che, purtroppo, per una serie di incomprensioni sviluppò, tra l’altro, una lite giudiziaria per i diritti d’autore richiesti dallo scrittore siciliano. La sentenza della Cassazione della causa contro l’editore Sonzogno, per i diritti d’autore sulla rappresentazione musicata dal maestro Mascagni, fu emessa nel 1892 e portò denaro allo scrittore, grazie all’esito favorevole. Nel 1891, nel frattempo, pubblicò I ricordi del capitano d’Arce e in questo periodo divennero sempre più frequenti i viaggi in Sicilia.
   Il ritorno nella sua Catania avvenne nel corso del 1893 e fu anche un ritorno alle origini del suo carattere, che lo vide molto più pessimista, per via della vicenda giudiziaria, che lo segnò per il resto della sua vita – anche di scrittore – e, ancor di più, nei confronti della modernità.
   Un riflesso personale e locale che si rispecchiò, altresì, nelle complessità sociali, economiche, strutturali e istituzionali cui dovette incorrere il nuovo regno, dalla sua istituzione, il 17 marzo 1861 e che si dovette confrontare, tra l’altro, con proposte federaliste di origine risorgimentale e intrighi locali su tutto il territorio; senza accantonare le difficoltà di bilancio e quelle legate all’inserimento nei tavoli internazionali, in cui non tutti i rappresentanti europei gradirono vedere “un’unica sedia” per l’Italia.

fine seconda parte





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[1] Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, N. Gallo (a cura di), Torino, Einaudi 1962, pp. 972-974.
[2] Il realismo si sviluppò in Francia dove la «commedia umana» di Balzac si fuse con impulsi giunti dalla Spagna e soprattutto dalla Russia (Gogol, Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj), partendo alla conquista delle letterature europee: gli stessi Balzac, Flaubert, Maupassant, Daudet furono gli alfieri del nuovo movimento rivoluzionario letterario. Cfr. V. Bertolini R. Bittasi, Storia della letteratura italiana, Roma, A. Signorelli Editore, 1967, p. 479.
[3] Nella seconda metà dell’Ottocento furono i quotidiani a svilupparsi nelle principali città, che divennero un elemento fondamentale della società e incisero sulla formazione dell’opinione pubblica.
[4] Nel 1877 fece la recensione de L’Assommoir di Zola, che col «romanzo sperimentale» fu il principale diffusore del naturalismo letterario in Italia.
[5] Strumento utile al rinverdimento della tradizione romantico-nazionale,infatti, Manzoni pose fra i cardini della sua opera il rispetto del vero e lo studio della vita quotidiana delle classi più umili e vulnerabili.
[6] La novella fu pubblicata nel 1879 e con questa espressione Verga intese la capacità di rimanere "attaccati" al proprio ambiente di povera gente. «Fantasticheria» il fascino di un'umanità colta nelle sue passioni elementari e per questo non corrotte e più vere.
[7] Nelle ristampe degli anni Settanta sarà possibile leggerne l’introduzione fatta da Italo Calvino.
[8] Con questa rappresentazione Verga fece conoscere il verismo nei teatri italiani, facendo apparire le opere teatrali romantiche inaspettatamente al di fuori del consueto, creando un vuoto nello spettatore.
 
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