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2 ottobre 2015

Giovanni Verga nostalgico catanese, fotografo dei perdenti

Uno dei grandi scrittori italiani, anzi europei dell'Ottocento


Luigi Capuana parlò di Giovanni Verga come di «uno scrittore di un decennio», poiché, solo dopo la conversione al verismo egli si rivelò un autentico scrittore sperimentale. I racconti sul mondo contadino e popolare divennero – dopo la prima edizione di Nedda del 1874 – la fase di svolta verista e che avviarono al decennio successivo, in cui ci fu, appunto, la migliore produzione basata sui fatti “nudi e schietti”, che orientarono la ricerca letteraria dello scrittore siciliano.
   Sicuramente, anche il dispiacere della vicenda giudiziaria Sonzogno-Mascagni diede quell’impulso, che da oltre un decennio covò nell’animo dello scrittore, di distaccarsi dalla falsa realtà vissuta nei salotti borghesi, per scegliere definitivamente di “schierarsi” dalla parte dei più, vulnerabili e bisognosi.
   Una volta stabilitosi nel palazzetto di famiglia a Catania in via Sant’Anna 8, egli incrementò, peraltro, un notevole pessimismo unito a un anti-progressismo che furono “il carburante” che alimentò il tema dei “vinti” a lui ormai caro; che descrisse una sua concezione deterministica della realtà, espressa nel concetto in cui vide il singolo alla mercé delle forze cieche, ma, anche, l’accrescere di una visione della vita sostanzialmente materialistica, in cui al centro furono messi gli egoismi individuali, sostenuti dall’avidità dei profitti economici, sempre pronti a spianare la strada al più forte nei confronti dei deboli.
   Il rientro in Sicilia nel 1893, comunque, coinvolse lo scrittore in numerose altre attività artistiche, quali, anche, il riprendere l’edizione di alcune novelle già pubblicate in forme drammaturgiche, da rappresentare al teatro, come pure, l’aggiornamento di alcune novelle che, tra l’altro, portarono lo scrittore ad appassionarsi maggiormente ai nuovi strumenti dell’arte, ormai, abbastanza collaudati: il cinema e la macchina fotografica.
   Fu, soprattutto, la fotografia a spingere Verga a scoprire nuovi orizzonti della vita. Anche in questo caso furono l’amico Capuana assieme a Federico De Roberto – che nel 1894 pubblicò I Vicerè – a spingerlo verso questo nuovo metodo di visione del mondo che lo circondò: i parenti, gli amici, anche il mondo contadino di uomini e donne semplici che lavorarono per la famiglia Verga, nelle campagne di Tébidi a Vizzini, nonché i luoghi intorno a lui, ma anche i laghi della Lombardia, che Verga visitò prima di trasferirsi da Milano, furono impressionati sulle lastre del tempo.
   Questo suo interesse verso il voler fissare i momenti della sua continua ricerca antropologica, secondo un percorso legato alla documentazione e non al risultato artistico, intendendo la fotografia come mezzo e non come fine, lo portò a dividere i momenti degli scatti in due blocchi differenti: uno che documentò la realtà semplice e le condizioni della vita dei campi; un altro rivolto alla famiglia, la madre, i fratelli, gli zii, i nipoti e agli amici, capace di descrivere, di fatto, alcuni tratti della vita quotidiana siciliana, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
   Verga, inoltre, riuscì ad andare oltre il semplice scatto legato cioè, al mero interesse documentaristico, poiché egli fu un vero e proprio pioniere della nuova arte, riuscendo a realizzare la fase più avanzata dello sviluppo delle lastre e della stampa, in un “laboratorio” realizzato in casa, dove pure furono trovate numerose fotografie alla fine degli anni Sessanta, del XX secolo, da parte di uno studioso, il professor Giovanni Garra Agosta, oltre a molte lastre in vetro e negativi in pellicola, in un armadio della casa dello scrittore.
   Grazie a questa scoperta, si poté datare l’inizio di questa passione al 1878, epoca in cui lo scrittore si trovò in Lombardia e per questa ragione che tra le varie immagini furono ritrovate quelle di Bormio, di laghi lombardi e di alcuni soggiorni in Svizzera. Un’epoca, la fine degli anni Settanta, in cui lo scrittore confermò il divario col naturalismo francese per avviarsi verso quel filone che lo identificò nella letteratura italiana ed europea del XIX secolo. L'interesse per la fotografia, del resto, nella seconda metà dell'Ottocento coinvolse alcuni intellettuali della buona borghesia in questo passatempo, per l'epoca, sicuramente di privilegio, che, tra l’altro, accomunò Verga, Capuana e De Roberto, rendendoli artefici di esperienze non prive di coinvolgimento.
   Un rapporto, quello della letteratura con la fotografia, che un secolo più tardi fu raccolto da un altro scrittore, Italo Calvino, che aggiunse alla scrittura l’arte visiva, di un proposito letterario mischiato tra arte e scienza, accordando immaginario e realtà e che proprio in L’avventura di un fotografo del 1970, trattò le complessità di comunicazione attraverso la macchina fotografica. L’immagine impressa nella memoria, fu secondo Calvino, il punto di partenza per scrivere un racconto e per rivivere una storia comune.
   Come Verga ne fu un antesignano e un utilizzatore del medium fotografico ai fini letterari nel XIX secolo, allo stesso modo, nel XX secolo, Calvino contribuì ad alimentarne la corrente letteraria legata all’immagine. Un argomento che fin da subito accrebbe illusioni sulla consistenza della realtà riprodotta, nonché della preoccupazione che la fotografia fosse un’invenzione capace di soppiantare ogni altra forma d’arte[1].
   Un immaginario illustrativo strettamente legato a quello letterario dell’autore, che nel 1895 rincontrò a Roma il suo coetaneo Emile Zola, anch’egli appassionato di fotografia, insieme con l’amico Capuana, ma che ritornò presto alla sua Catania per continuare la sua attività letteraria, considerata la conferma dei punti di vista differenti col famoso scrittore francese, che sarà promotore del «J’accuse...» a difesa del capitano Dreyfus; che nel 1894 vide pubblicati i racconti di Don Candeloro e C. Nel 1895, inoltre, arrivò il rimborso di 144.000 lire, dell’editore Sonzogno per l’esecuzione della sentenza della Cassazione, che gli permisero di risollevarsi economicamente, di onorare i debiti sorti e un’occasione per viaggiare in Svizzera, durante il periodo estivo. Nel 1896 si appassionerà al dramma cercando di iniziare La duchessa di Leyra, che lo tenne abbastanza impegnato, persino, ad andare a Palermo per assumere informazioni archivistiche sulla moda maschile e femminile della prima metà dell’Ottocento.
   Nonostante ciò, gli amici notarono un aumento del pessimismo dello scrittore nei confronti della modernità, manifestando, con l’approvazione, nel 1898, della carica del generale Bava Beccaris contro i milanesi in rivolta, un maggiore conservatorismo politico; critico verso la politica italiana, arrivò, persino, a esprimersi verso il re Umberto I, di colui che si piegò alle richieste degli industriali milanesi e del capo del governo. Espressioni avute da Verga mentre si trovò davanti agli occhi altri scenari sociali, orgoglioso di averli descritti nei suoi romanzi e come furono nuovamente rimarcati nel dramma Dal tuo al mio, che rielaborò in romanzo nel 1907, in cui furono sottolineati come l’egoismo e l’interesse siano il motore fondamentale delle azioni dell’uomo.
   Anziano, visse maggiormente nella sua terra, evitando di allontanarsi se non per andare nelle sue tenute nei dintorni di Catania e a Vizzini. Si entusiasmò per l’impresa coloniale con la guerra d’occupazione della Libia nel 1911/12 e anche per il movimento futurista di Filippo Tommaso Marinetti; seppur si dichiarasse interventista e nazionalista, si preoccupò molto della vita del nipote Giovannino richiamato per la Grandeguerra, primogenito del fratello Pietro scomparso nel 1903. Col passare del tempo, rimarcò quell’idea, che lo distinse a metà degli anni Settanta, che l'autenticità di un’esperienza umana, che la moda e il costume soffocò, non può essere vissuta attraverso la modernità – che tutto “rapisce” – annullando le tradizioni, che sono le radici di un popolo. Di fatto, dopo aver conosciuto il mondo della borghesia e, ancora, il modo di vita del Settentrione, in quest’epoca, rafforzò ancora di più il suo pensiero di autenticità umana, rivolto ai personaggi più umili della sua Sicilia.
   Dopo una serie di lutti in famiglia e anche del caro amico Luigi Capuana, scomparso nel 1915, divenne sempre più solitario, ma nonostante questo suo pensiero d’isolamento, fu confermato personaggio pubblico con la nomina di senatore nel 1920, anno in cui fu festeggiato il suo ottantesimo compleanno, in una serata organizzata a Roma al teatro Valle, in cui parteciparono oltre agli amici anche Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione e Luigi Pirandello.
   Il 27 gennaio 1922 lasciò quello che riguardò la vita terrena per entrare a far parte della memoria collettiva e al suo funerale a Catania fu numerosa, tra la folla, la povera gente da lui rappresentata nelle varie novelle, accorsa per conoscere il “maestro”, che con l’impegno letterario riuscì a farla diventare protagonista della realtà, rivolta alla vita semplice ma dura nella sua quotidianità.




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[1] Charles Baudelaire nell’articolo Il pubblico moderno e la fotografia, in «Revue Française» del 1859, espresse disappunto nei confronti della nuova tecnica, considerando la fotografia «grande follia industriale». Dalla scoperta di Louis Daguerre nel 1839 ci furono contrasti riguardo aspetti differenti del nesso tra fotografia, arte e legge e Baudelaire pose, tra l’altro, in discussione il “vero” in contrapposizione al “bello”.
 
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