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10 gennaio 2015

“Non si parte” un moto spontaneo: le cartoline "rosa" e le jacquerie siciliane del dicembre 1944


Una mattina del dicembre del 1944, scuro in volto, il postino mi porgeva una cartolina rosa. “Cos’è questo biglietto?” gli chiesi: “Leggete, signora Marietta e vedrete di che si tratta”. “Al signor L. Giuseppe… In nome di S.A.R. Umberto di Savoia, Luogotenente del Regno… entro dieci giorni vi presenterete al distretto militare… portate con voi gavetta, cucchiaio e coperta”.Mio marito era tornato a casa dopo la liberazione di Roma. Ora quello strano biglietto alzava all’improvviso il sipario sul nostro passato.[1]
   La chiamata alle armi dei civili aventi obblighi di leva, delle classi dal 1914 al 1924, fu disposta con circolare del ministero della Guerra, il 23 settembre 1944 e dal momento in cui iniziarono a trafugare le prime voci alla predisposizione delle liste per i richiami, trascorsero altri mesi. Il richiamo fu indirizzato sia agli sbandati dell’8 settembre, sia a coloro che furono in precedenza esonerati, tra questi gli universitari fino a ventisei anni. Agli universitari l’esonero permase per gli studenti di medicina, farmacia e veterinaria, mentre furono richiamati alle armi anche i cittadini italiani ebrei rientranti nel contingente.
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   Una cartolina come quella, gli uomini in età di tutta la Sicilia la ricevettero tre anni prima: «Non più di sei mesi di sacrificio e poi si starà meglio, si darà un volto nuovo al mondo», si disse, ma dopo tutta la miseria e gli stenti con cui dovettero convivere nel 1944, sia i contadini, sia i paesani, quelle cartoline rosa bruciarono nelle mani di chi le ricevette.
   La vita quotidiana nelle varie cittadine della Sicilia, come nei capoluoghi, a oltre un anno dallo sbarco alleato e, soprattutto – dalla firma della resa con le Condizioni aggiuntive di armistizio con l'Italia del 29 settembre 1943 – non ebbe modo di far provare quel senso di riscatto che immaginarono, per molti anni, la maggioranza dei paesani e dei contadini siciliani; in cui sperarono di trovarsi sul punto di essere “definitivamente” liberati dal regime fascista e che gli aiuti alleati creassero un’immediata utopia.
   La dura realtà vide, oltre alla necessità di braccia per la ricostruzione dai bombardamenti a tappeto avvenuti nei giorni dello sbarco, compiuti sia dagli alleati, sia dai tedeschi, tra l’altro, la continua mancanza di servizi da parte delle amministrazioni locali: dai trasporti – un servizio atavicamente carente in Sicilia – all’erogazione della energia elettrica, oltre alle continue difficoltà per il reperimento dei principali beni di necessità imposte dal mercato nero, nonché l’aumento speculare della disoccupazione. Tutte situazioni che alimentarono lo stato di esasperazione e, particolarmente, un atavico senso di disaffezione da parte dei siciliani – risalente al periodo dell'Unità d'Italia – nei confronti dello Stato, che, ciononostante il decreto luogotenenziale del 27 luglio 1944, n. 159 “Sanzioni contro il fascismo”, non videro quel cambio di personale e quell’epurazione dei fascisti, che neanche le forze alleate sempre operarono.
   La necessità di rifondare l’isola su nuovi valori, basandoli su uno sviluppo migliore e, soprattutto, diversi da quelli proposti in precedenza dal fascismo e dalla classe agraria, fu la base dell’inaccettabilità da parte dei suoi giovani di allontanarsi nuovamente dalla Sicilia e subire di ripartire per la guerra.
   Questo, uno spaccato delle principali difficoltà quotidiane e di realtà “gattopardiana” promossa dagli organismi alleati al comando, al momento dell’arrivo delle cartoline rosa, che – non da ultimo – vide, in alcuni comuni, la “sistemazione” di conosciuti esponenti mafiosi ai vertici delle amministrazioni locali.
   La politica nazionale, del resto, per cercare di fare “bella figura” con gli alleati, mosse verso la soluzione di alimentare il Corpo italiano di liberazione, poiché, già dopo lo sbando dei reparti del regio esercito a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, i più confluirono nel I Raggruppamento motorizzato al comando del generale Vincenzo Dapino e nelle unità ausiliarie. Da un altro punto di vista, non si adoperò per comprendere più approfonditamente l’esplosione di insofferenza ereditaria dei siciliani nei confronti di vecchi e nuovi colonizzatori, causa dell’assoluta mancanza di fiducia e di speranza per il futuro; generando, in questa fase, un momento di “scollamento” tra le azioni politiche proposte a Roma e la realtà in cui attuarle.
   I bandi del 23 novembre 1944 e il relativo recapito ai destinatari nei primi di dicembre, infatti, per i siciliani suonarono come l’ennesimo atto di vessazione. Il richiamo alle armi, in questo clima e al fine di ricostituire un esercito che affiancasse gli alleati, conosciuti dalla popolazione siciliana anche per la durezza degli atteggiamenti instaurati in loco, non certo portò a un’immediata risposta affermativa. Ancora bruciante, tra la gente, la notizia dell'uccisione da parte di un ufficiale superiore americano di otto civili, tra cui una bambina di dodici/tredici anni, a Canicattì, che saccheggiarono la saponeria "Narbone Garilli" di via Carlo Alberto, bombardata dai tedeschi, nonché della strage di avieri e soldati italiani a pochi giorni dallo sbarco, da parte di un ufficiale e un sottufficiale americani – a Piano Stella, nella zona di Biscari (oggi Acate) – che fecero il giro dell’isola.
   Di tutta risposta, sui muri delle città siciliane comparvero le prime scritte “NON PRESENTATEVI” “PRESENTARSI SIGNIFICA SERVIRE I SAVOIA”. Per le strade furono preparati cartelli pubblicitari “MAMMA QUESTA VOLTA NON TI LASCIO”, “MAMMA NON PIANGERE NON PARTIAMO” , “ABBASSO LA GUERRA, VIVA LA PACE” e in molti paesi s’improvvisarono comizi. Ad alimentare la tensione, si sparse, inoltre, la voce che gli americani portassero questi giovani a combattere in Giappone e che lì non ci fosse più scampo per loro, poiché i giapponesi uccidessero i prigionieri.
   Nelle campagne? chissà quali notizie giunsero, dopo essere passate di bocca in bocca.
   In realtà, per il nucleo familiare contadino, l’allontanamento coatto degli uomini sarebbe significato amplificare le difficoltà e le miserie; a ciò si aggiunse il dilagare del banditismo – un’ulteriore causa della crisi economica e politica di questo clima difficilissimo – in accrescimento alle tante preoccupazioni che pervasero i contadini siciliani nelle varie contrade, per la maggior parte isolate.
   Bande armate costituite da malfattori, contrabbandieri, ex detenuti e latitanti, ai quali si unirono anche dei disertori, scorrazzarono nelle varie contrade e nei villaggi rurali siciliani, costringendo i prefetti a un maggior impiego di regi carabinieri. Un fenomeno, questo del banditismo, che ebbe una connotazione prettamente rurale e che non tralasciò alcuna provincia siciliana, senza raggiungere le varie cittadine.
   Seppur primitivo, anche questo fu un modo di reazione alle difficoltà della vita quotidiana di quei giorni. L’approfittarsi del prossimo in quella situazione, per alcuni, poté concepirsi a scapito di nuclei in un primo momento più deboli, ma che – a seguito di una risposta più coraggiosa e, soprattutto, civile – portò alla crescita di un imponente movimento sindacale, che perdurò per tutto il dopoguerra, contrapponendosi duramente al banditismo. «La via del banditismo fu una delle due risposte, la più conforme alla tradizione rurale premoderna e perciò la più elementare e primitiva, che la campagna contadina diede ai problemi dello sfacelo provocato in Sicilia dalla disfatta militare e dal crollo dello Stato italiano», dirà Francesco Renda.
   Dagli inizi di dicembre 1944 tutte le provincie siciliane furono coinvolte; in diverse zone ci furono delle jacquerie per evitare l’arruolamento nell’esercito sabaudo, dando così inizio ai moti di piazza che rimasero maggiormente nella memoria come “Non si parte”.
   I richiamati dimostrarono pubblicamente il loro rifiuto evitando di nascondersi, a loro si unirono cortei di protesta davanti ai distretti militari, alle prefetture e alle caserme dei carabinieri, alfine di trasmettere al neo governo Bonomi le loro intenzioni, in altre parole, di non obbedire agli ordini impartiti. Come accadde in alcune città, le insurrezioni popolari spontanee furono legate a problemi reali, soprattutto, di natura alimentare, ma anche riferite a disservizi delle amministrazioni locali, oltre all’arrivo delle cartoline “rosa”.
   A Enna l’11 dicembre si organizzò una manifestazione che si svolse pacificamente. Nelle altre provincie e nelle città universitarie immediatamente furono raccolte le grida di protesta: a Messina e Palermo, dove le insurrezioni popolari proseguirono per alcuni giorni. Moti spontanei ci furono anche nei paesi delle altre provincie: Scordia, Alcamo, Delia, Niscemi, Erice, Gela, Piazza Armerina, Serradifalco, Paceco, Solarino, Mazzarino, Marsala, Noto, Giarratana, Sant’Agata di Militello, Patti, Capo d’Orlando, Modica, Vittoria, Comiso, Chiaramonte Gulfi, Mussomeli, San Cataldo, Villalba, Calascibetta, Nicosia, Pietraperzia, Barrafranca, Scicli, Sciacca, Canicattì, Palazzolo Acreide, Vizzini, Aidone, Termini Imerese.
   A Catania, il 13 dicembre iniziarono i primi assembramenti, con capofila i giovani studenti universitari, muniti di cartelli con le scritte “NON PARTIREMO”.
   Il 14 dicembre, però, le strade furono invase da numerosissimi catanesi, tra questi anche: fascisti, comunisti, anarchici e separatisti stufi di andare a morire su un fronte di guerra confuso e ormai privo di qualsiasi riferimento ideologico. Nelle prime ore della mattinata i giovani che ricevettero le cartoline precetto si diressero verso la sede dell’antico distretto militare, istituito nel 1870. La piccola folla aumentò i clamori e man mano si unirono numerosi cittadini, che appoggiarono la protesta dei giovani. A seguito di incomprensioni gli scontri degenerarono nella violenza e i soldati all’interno della struttura militare, nel cercare di difendersi, aprirono il fuoco contro un gruppo di giovani manifestanti, e la folla, nonostante i tafferugli, riuscì a incendiare i locali dell’ufficio leva. Nello scontro, però, un giovane sarto perse la vita, colpito alla nuca e nei riscontri che furono fatti dai carabinieri, si scoprì che si trattasse del ventunenne Antonio Spampinato. La massa in rivolta proseguì il suo cammino di rabbia e gli scontri proseguirono per l’intera giornata, mentre il numero dei manifestanti aumentò a seguito dell’adesione di numerosi altri catanesi.
   La folla tumultuosa volse nel primo pomeriggio verso piazza Duomo – a palazzo degli Elefanti – sede del Municipio, dove una rappresentanza di manifestanti chiese udienza al sindaco di Catania Carlo Ardizzone, ma questi, intercettati dal segretario comunale Giorgio Puglisi, non furono ricevuti dal sindaco e, comunque, chiesero una corona di fiori e la rappresentanza dei vigili urbani ai funerali del giovane artigiano Spampinato.
   Il sindaco, peraltro, quel giorno fu coinvolto da altre pressioni, provocate da una rappresentanza di pescivendoli ai quali promise l’abbattimento del calmiere, ma che non poté mantenere, poiché, il prefetto Florindo Giammichele non confermò l’eliminazione del prezzo calmierato. I pescivendoli furono respinti dal sindaco e la circostanza creò terribili malumori tra la categoria, che prese a sostare per quasi tutto il giorno davanti al portone del municipio. Intanto, dai quartieri più popolari arrivò una turba di ragazzi che forzò le finestre del palazzo.
   A piazza Duomo la folla aumentò col passare del tempo e nonostante fosse stato ordinato al comandante dei vigili urbani, colonnello Pietro Musumeci, di non fare estrarre la pistola in dotazione ai vigili presenti e a quelli accorsi a difesa, il palazzo degli Elefanti fu assalito e incendiato, sensibilmente danneggiato al punto che andarono persi i preziosi archivi storici. Inoltre, i manifestanti entrarono nella sede del Banco di Sicilia, che subì notevoli danni e saccheggiati furono, anche, gli annessi uffici dell’esattoria comunale.
   La notizia, poi, della morte del giovane manifestante fece il passaparola e la reazione dei manifestanti fu immediata, appoggiata dalla gente di Catania che, nell’idea di raggiungere il Palazzo di giustizia, insorse assalendo – per rabbia – la bandiera monarchica, fatta a brandelli nei locali dell’Associazione combattenti. Fu la volta del saccheggio dei locali del tribunale.
   Le forze dell’ordine intervennero nel tardo pomeriggio e anche l’intervento dei vigili del fuoco fu tardivo. Fino a tarda notte Catania fu messa a soqquadro e per questi disordini le forze dell’ordine portarono “alla sbarra” cinquantatrè persone, tra le quali, colui che fu indicato come capo della rivolta, l’ispicese Salvatore Padova, assieme a Egidio Di Mauro e Giuseppe La Spina, segnalati come separatisti. Per questa “inezia” il prefetto il 18 dicembre fu posto a disposizione fino al maggio 1945 e anche il questore Giuffrè fu immediatamente sollevato dall’incarico.
   Concetto Gallo, esponente del Movimento indipendentista siciliano, dichiarò: «Transitando alcuni minuti dopo il fatto dalla piazzetta [del Duomo], vidi un militare che raccoglieva da terra un pezzo di carne insanguinata servendosi di una baionetta. Era il cervello spappolato del giovane».
   Il Comando generale dei carabinieri, nel rapporto sui fatti verificatisi a Catania il 14 dicembre 1944 e con riferimento alla morte di Antonio Spampinato, tra l’altro, scrisse:
Dovrebbesi arguire che il caduto sia stato colpito o da uno dei colpi di rivoltella partiti dalla folla dei dimostranti contro il portone d’ingresso della caserma, o da uno dei sette colpi di fucile sparati dall’interno dell’atrio d’ingresso del distretto contro il portone in parola da due soldati posti a guardia di esso [...] Il generale Cesaretti tuttavia, nell’intento di far luce completa sul luttuoso episodio della morte dello Spampinato ha proposto superiormente la denuncia dei militari stessi all’autorità giudiziaria[2].
   Scrisse Igor Man su “Il Tempo” del 7 gennaio 1945: «Perché ci si accanisce contro le fumose macerie del Municipio? Proviamo a rispondere: per protestare contro tutto e tutti, contro la fame e il mercato nero, contro le autorità deboli e gli speculatori. Bastava sentire gli animati commenti della folla che nella piazza del Duomo seguiva l’opera di spegnimento per convincersi che il malcontento in Sicilia ha raggiunto proporzioni preoccupanti. Abbiamo sentito dire a denti stretti: “Che bruci, che bruci questo Municipio disgraziato”».
   Anche a Naro il 14 dicembre fu segnato come la data in cui un’insurrezione popolare spontanea volse verso il Circolo “Progresso”, luogo d’incontro della nobiltà locale. Qui i manifestanti, soprattutto, i giovani – per la maggior parte contadini – che furono raggiunti dalle cartoline precetto mostrarono la rabbia oltre alle miserie che colpì la popolazione. Infatti, per segnalare lo stato d’indigenza la popolazione mosse, pure, verso il Circolo degli agricoltori, sede di conversazione dei proprietari terrieri. Non vi furono vittime, ma solo un forte segnale di protesta che portò gli insorti, infine, al mulino “S. Agostino”, per un tentativo di saccheggio.
   La fame e la miseria, causate dal blocco delle attività produttive e commerciali, nonché dei servizi delle amministrazioni locali, alimentarono sempre di più la spinta propulsiva di questi moti spontanei nell’entroterra siciliano, che non si fermarono qui.
   A Palermo il 15 dicembre, studenti universitari manifestarono politicamente contro il richiamo alle armi, sobillati da fascisti e separatisti, pronti a ogni azione contro il governo Bonomi e nella reazione ci furono dei feriti. La contestazione, infatti, fu negativamente giudicata dal Comitato di liberazione nazionale e dalla locale sezione del Movimento giovanile comunista.
   A Pedara, non ci fu una manifestazione pacifica, infatti, per protesta contro il richiamo alle armi dei giovani, nella mattina del 17 dicembre, furono lanciate cinque bombe a mano in due piazze del paese.
   A Vizzini, nel pomeriggio del 17 dicembre, i carabinieri aprirono il fuoco contro i dimostranti intenti a incendiare la sede del municipio. In quell’occasione persero la vita due manifestanti.
   A Piana degli Albanesi, il 18 dicembre, la Commissione mobile censimento del Distretto militare di Palermo, formata da militari del 139° Reggimento “Sabaudia”, andò a conferire presso le autorità militari e civili riguardo al reclutamento di coloro che fossero stati raggiunti dalle cartoline precetto. Allo stesso tempo, un folto gruppo di giovani interessati furono sobillati alla reazione da parte di Giacomo Petrotta, un ex rappresentante locale del Partito comunista, che tenne un discorso spontaneo sulla scalinata della chiesa di San Vito, anche riguardo problematiche sull’ammasso del grano e sulle bollette di macinazione. Da questo censimento “porta a porta” nelle vie di Piana, il comandante del nucleo, il capitano Ignazio Barrile, cercò di placare gli animi dei dimostranti, spiegando le motivazioni del loro mandato e lo scopo del censimento stesso.
   Per Piana degli Albanesi la problematica delle cartoline precetto – descritta dal sindaco con un’informativa inviata al prefetto di Palermo il 19 dicembre – diede modo di avviare un’altra forma di organizzare la collettività, che sfociò nella “repubblica contadina”.



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[1] M. OCCHIPINTI, Una donna di Ragusa, Sellerio, Palermo 1993, p. 82.
[2]  In Storia del movimento operaio 13 gennaio Roma.

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