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18 novembre 2014

Il pensiero lapiriano: incrocio e combinazione di popoli diversi




Siamo entrati – soleva dire – nel tempo dell’unica guerra legittima dell’unica strategia legittima, la guerra e la strategia contro la fame, la miseria, la depressione economica, sociale, culturale e politica dei popoli di tutto il mondo[1].

Avvicinare la figura di Giorgio La Pira al concetto di Europa unita sarà un modo per delineare lo spirito sostanziale del personaggio stesso, riguardo a un argomento che tuttora è oggetto di ampio dibattito e dalle soluzioni politiche non certo soddisfacenti.
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/f/f6/Lapira.jpg   Un uomo semplice che, al servizio della carità spirituale, nel suo imprevedibile stile profetico e in un progetto di libertà e di futuro, dedicò la sua vita agli altri.
    Un italiano dell’estremo meridione, nato a Pozzallo nel 1904 in mezzo al Mediterraneo, di fronte all’Africa e all’Asia; all’età di dieci anni, fu mandato a Messina dallo zio Luigi per terminare la scuola media e poi, frequentare gli studi di ragioneria; la cui ammirazione per il suo insegnante di italiano Rampolla, lo portò fino a Palermo per sostenere, inoltre, l’esame di maturità classica nel 1922, da cui l’interesse verso la Facoltà di Giurisprudenza che lo riportò a Messina, per frequentarne l’Ateneo.
   Durante gli anni Venti, mentre dall’Est Europa arrivarono notizie della rivoluzione civile russa, nella “capitale dello Stretto” il giovane La Pira ebbe modo di frequentare i cenacoli intellettuali, intrattenendosi con gli amici e compagni di scuola su giovanili esperienze culturali e tentativi letterari, addirittura, sulla scia di simpatie dannunziane e futuriste, soprattutto con i due “Totò” Quasimodo e Pugliatti fondatore della “Brigata del vento”, a cui si unirono Raffaele Saggio, Bruno Misefari e Luca Pignato, nonché il futurista Vann’Antò.
   Furono, per di più, gli anni in cui, grazie alla conoscenza di don Mariano, il fratello sacerdote del professore di italiano, egli si aprì sul piano spirituale in occasione della ricorrenza pasquale del 1924, al punto che l’anno successivo divenne frà Raimondo, terziario domenicano. Convinzione questa, che lo portò ad affrontare la vita quotidiana con impegno cristiano, orientato dalla teologia della storia.
   Trasferitosi a Firenze per seguire il “suo” professore Betti, docente di Diritto romano e per terminare gli studi accademici, negli anni Trenta – con l’esperienza della “messa del povero” (una delle tante) davanti alla chiesa di San Procolo, in cui la domenica riusciva, con l’aiuto di volontari anche benestanti, a riunire gran parte dei mendicanti di Firenze per avvicinarli alla Casa del Signore, al fine di assicurarsi il pane quotidiano, sia per l’anima, sia per il corpo − alimentava in tal modo l’idea che lo spingeva a seguire il cammino spirituale intrapreso: impegno sociale verso i più vulnerabili e compito cristiano di “luce del mondo”.
   Con riferimento al suo imprevedibile stile profetico, la figura del professore siciliano poteva dare una certa impressione, come quella annotata da Benedetto Croce nel suo diario, dopo un interveneto alla Costituente, l’11 marzo 1947:
Aveva poi parlato a lungo un democristiano, un socialista o un comunista convertito, che faceva una vita ascetica in un convento e insegnava diritto all’Università di Firenze: discorso sbizzarrissimo, puerile nelle spiegazioni e nei paragoni, concluso con una invocazione alla Vergine e con un largo segno di croce[2].
   Dalla sua nuova sistemazione nella città di Firenze, spazierà dall’ambito accademico attraverso la cattedra di Istituzioni di diritto romano vinta all’Università di Firenze, all’ambito culturale mantenendo i contatti con gli amici siciliani della “Brigata del vento”, quindi, volgerà il suo impegno primariamente verso la lotta contro la miseria: origine del malessere sociale e della rovina materiale, morale e religiosa dell’uomo contemporaneo.
   Rimarrà innamorato della città toscana, al punto che la definirà «la perla del mondo» in occasione della scelta, che egli sostenne «illegittima», tra incarico parlamentare e sindaco di una grande città. Apprezzamento che sarà ricambiato dai fiorentini che lo eleggeranno loro sindaco “Sindaco santo”, in carica dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1966.
   Anni che furono della ricostruzione economica, ma anche della divisione politica e sindacale del paese, in cui egli si adoperò per fortificare le sue “radici siciliane e vocazione mediterranea”, che rimasero alla base del suo pensiero; che vide nella pace, nel dialogo fra i popoli e nella concordia universale la strada da percorrere verso il prossimo, seguendo gli insegnamenti di san Tommaso.
   Cercò, pertanto, di rendere la città di Firenze una delle “fondatrici”, in senso pragmatico, del pensiero di Europa unita, che partendo da un mercato comune col “Trattato di Roma” del 1957, prese l’avvio, di fatto, la Comunità economica europea e dell’energia atomica, di cui il ministro degli Esteri Gaetano Martino dichiarò a "La Stampa" del 18 gennaio: «E’ chiaro che senza l’unificazione i paesi europei rischiano di decadere in brevissimo tempo. Inoltre, l’unificazione renderà più facili i rapporti fra il “blocco Europa” e gli Stati Uniti. Quindi subito dopo la ratifica dei due trattati speriamo di avviare iniziative per l’unificazione politica a cui, del resto, la unificazione economica porterà inevitabilmente»; un altro passo per l’affermazione del grande pensiero maturato nell’isola di Ventotene, raccolto nelle poche pagine del “Manifesto” a cura di Spinelli, Rossi e Colorni, prigionieri politici della dittatura nei primi anni Quaranta.
   Nella sua fervente attività di amministratore della città di Firenze, i "Convegni per la pace e la civiltà cristiana" furono iniziative a carattere internazionale, che La Pira volle organizzare nel giugno di ogni anno, dal 1952 al 1956, con uno scopo ben preciso che il neo sindaco si prefissò, rivolgendosi ai diplomatici, ossia l’invito a fare giungere a Palazzo Vecchio «rappresentanti qualificati della cultura [...] per procedere a uno scambio di idee sulle attuali condizioni della civiltà cristiana nel mondo e sulle permanenti capacità che possed[eva] per essere valido strumento di pace e di unificazione tra i popoli»[3]
   Occasioni di una riflessione culturale sulla validità “politica” della civiltà cristiana, nonché per lavorare alacremente al fine di avvicinare le nazioni europee sopravvissute al conflitto mondiale, le cui risposte dei vari governanti furono numerose e la partecipazione vide anche rappresentanti di nazioni di altre religioni, ma con lo stesso interesse – legato alla pace nel mondo – soprattutto in piena Guerra fredda.
   Dallo spunto del primo, tra i trattati che furono firmati dai sei paesi costituenti – il Trattato che istituì la Comunità europea del carbone e dell’acciaio del 1951 – l’iniziativa di La Pira sarà un’occasione per alimentare lo sviluppo della nascente unità europea, soprattutto, attraverso l’incremento della fratellanza, in cui si rileverà la riuscita dei convegni nel loro intento, ponendosi alla base della formazione delle prime istituzioni europee, approvate liberamente e democraticamente da tutti i paesi membri.
   Convinto assertore che principale centro di unione fosse la città, poiché ottimo conoscitore della “sua” Firenze, nell’aprile 1954 a Ginevra, nella sede della Croce rossa internazionale lanciò l’insuperato appello sul “valore delle città” e sulla necessità del disarmo a garanzia della vita e della pace; nel 1955, a seguito dell’eco avuto per l’interrogativo posto a Ginevra se «hanno gli Stati il diritto di distruggere le città?», rafforzato dalle origini siciliane che lo accompagnarono sempre verso una visione più aperta, oltre i confini dell’orizzonte, promosse il "Convegno dei sindaci delle capitali del mondo", favorendo ancora il messaggio di amicizia fra le città per lo sviluppo di una pace duratura, riunendo i sindaci delle principali città dell’area occidentale e orientale in un’assise che non ebbe precedenti e portata in precedenza.
   Attività che La Pira sentì di dover promuovere in uno scenario di continuata reazione europea ai disagi del dopoguerra e di provocazioni tra Usa e Urss, come succederà in Ungheria, nel 1956, dove il popolo si rivolterà contro il regime filosovietico al potere; in novembre i carri armati sovietici invasero le strade di Budapest per domare le proteste. Contrapposizioni politiche e militari che, di fatto, sfociarono nel decennio successivo: nell’agosto 1961 col sovietico muro di Berlino e nell’ottobre 1962 col blocco navale statunitense attorno a Cuba.
   Gli anni Cinquanta videro, tra l’altro, l’avanzare del movimento cattolico nei confronti di una sinistra italiana attenta all’unione tra operai delle fabbriche del Nord e contadini delle campagne del Sud; come, in una scala più globale, un internazionalismo che riunì specificatamente la classe operaia, racchiuse il mondo dei lavoratori senza confini, a confronto del federalismo che invece guardò allo sviluppo della figura della società europea.
   Anni, quindi, in cui riscosse molto interesse il dialogo federalista, dove si parlò di "Movimento comunale europeo e internazionale" al quale don Sturzo, strenuo antifascista, dichiarò di aderire all’iniziativa in favore delle autonomie locali, seguito da Adriano Olivetti col "Movimento comunità" del 1953.
   In questo il pensiero lapiriano fu concentrato verso un concreto sviluppo delle città intese come strutture dotate «di vita propria», «unità viventi» aggreganti delle classi sociali, tra i quali i più abbienti, e rapportato al pensiero spinelliano dello sviluppo di società eterogenee, ma con un ideale collettivo per la formazione dell’Europa unita.
   Due protagonisti, appunto, Giorgio La Pira e Altiero Spinelli che, oltre a essere coetanei, operavano per lo stesso progetto di pace e di fratellanza in circostanze sicuramente diversificate, poiché in contesti territoriali lontani, ma che cercavano di cogliere lo stesso frutto dalle azioni attuate a favore dei più bisognosi e delle collettività in via di sviluppo. Per questo suo senso di aperture sociali il professore siciliano era apostrofato spesso da "La Nazione", come un comunistello da sacrestia, al pari di alcune correnti interne alla Democrazia cristiana, che in maggioranza non potevano tollerare alcuna “apertura a sinistra”, condivisa, al contrario, da Fanfani che, in quel momento politico, praticava un estremo tatticismo, per non aggravare le spaccature interne.
   Nel 1957, la mancata maggioranza per questioni di bilancio, all’interno del Consiglio comunale di Firenze, lo portò alle dimissioni da sindaco, senza, però, terminare l’impegno col re del Marocco Maometto V, riguardo a chiamare gli esponenti dei popoli mediterranei in Palazzo Vecchio, affin­ché possa attuare lo spes contra spem, circa la loro pacificazione e la loro unione.
   Con l‘allontana­mento dal Comune colse l’occasione per visitare principalmente luoghi di preghiera e oggetto di tanto interessamento, con l’obiettivo, tra l’altro, di ricercare sul posto l’impeto per ulte­riori azioni diplomatiche collettive, nel tentativo di aprire canali di dialogo tra Israele e i paesi arabi.
   In occasione del suo primo viaggio-pellegrinaggio in Terra Santa fu ricevuto dalle più alte autorità. Nel dicembre 1957 fu re Hussein di Giordania; in gennaio 1958 accolto dal primo ministro israeliano Golda Meir, andò in pellegrinaggio a Gerusalemme, Betlemme, Hebron; nel gennaio 1960 il presidente Nasser lo ricevette in Egitto.
   Ancora una volta il pensiero lapiriano si mostra contemporaneo e rappresentativo di una totale apertura. Egli, infatti, volle determinare che – essendo originario di diverse tradizioni lasciate dai vari popoli che invasero la Sicilia: dai Greci ai Romani, dai Bizantini agli Arabi, dai Normanni agli Svevi, dai francesi agli spagnoli, dagli inglesi agli austriaci, come ogni siciliano – di ognuno di essi si sentì parte – rimanendo, però, sempre legato alla mediterraneità.
   Incentrato in questo concetto, agendo, altresì, attraverso la dimensione religiosa e non potendosi, pertanto, appiattire sul materialismo marxista e nonché sul pensiero capitalista, il professore siciliano aveva accertato tre centri d’interesse: le città, l’Europa unita e i paesi del Mediter­raneo, che avevano costituito un fertile alveo su cui far scorrere il suo disegno profetico, alla cui base aveva posto la necessità di comunicazione tra le persone, tra i popoli, tra le religioni, per coltivare lo scopo della pace e della concordia universale, quale unica strada da per­correre verso lo sviluppo sociale.




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[1] Prologo al discorso tenuto da La Pira al Consiglio comunale di Firenze, nella "Giornata delle Nazioni Unite", il 24 ottobre 1963.
[2] R. Doni, Giorgio La Pira. Profeta di dialogo e di pace, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2004, p. 68.
[3] AA.VV., Giorgio La Pira e la Francia. Temi e percorsi di ricerca. Da Maritain a De Gaulle, P.L. Ballini (a cura di), Giunti Editore, Firenze, 2005, p. 22.
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