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17 gennaio 2015

“Non si parte” un moto spontaneo: fatti storici ancora poco noti delle comunità ragusane alla fine del 1944


A Ragusa fu indicato dalle autorità di dover versare all’ammasso novantamila quintali di grano dopo la mietitura dell’estate 1944 e, difatti, la quantità fu rispettata dai vari contadini e agrari del posto; come nel resto della provincia furono rispettate le disposizioni impartite, al punto che si rivelarono superiori a quanto fu ammassato nelle altre provincie siciliane.
    Ciononostante, anche Ragusa fu travolta dalle miserie del 1944, come il resto della Sicilia: riduzioni delle razioni di pane da trecento a duecento grammi, continui aumenti dei prezzi di tutti i prodotti (anche a causa del danneggiamento delle strade extraurbane per via dei bombardamenti, che determinarono, peraltro, il mal funzionamento delle linee elettriche), sussidi non pagati alle famiglie bisognose, scioperi per aumenti salariali necessari per sopravvivere richiesti dagli operai dell’ABCD – principale industria di estrazione della roccia asfaltica – furono alcune delle cause.
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Il Distretto militare, in alto
    A queste si aggiunse la consegna, da parte dei portalettere, delle famigerate cartoline “rosa” di precetto, che diedero avvio alla stagione dei comizi nelle piazze san Giovanni e Silvestro Schininà, meglio conosciuta come piazza Fonti, affollate da cittadini in maggior parte lavoratori in sciopero e  studenti e da dove si alzò un unico grido: «Non siamo carne da cannone!».
   I giovani di tutta la provincia, a centinaia sfilarono davanti al Distretto militare, a Ragusa Ibla, alla Questura per riunirsi in piazza san Giovanni. Ad alimentare il livore, le notizie riguardanti altre manifestazioni svoltesi in tutta la regione nel dicembre 1944, tra le quali a Messina e a Palermo.
    Già al momento della lettura dei primi manifesti sui muri, riguardanti il richiamo alle armi, numerosissime donne, mamme, mogli di braccianti e operai, vedove di soldati non più ritornati dai vari fronti di guerra commentarono tra di loro, cercando qualche soluzione per non far allontanare i loro uomini da una situazione così piena di miserie, soprattutto, con ben poco da mangiare, basata su una vera necessità. Le sere a venire, infatti, in tutti i comuni del ragusano, la gente si riversò maggiormente in strada, dopo cena, discutendo animatamente e incitando i giovani a non partire, con un unico grido: «Nun si parti! Nun si parti!».
    In quel tempo fu l’incredulità di una popolazione che si convinse erroneamente che la guerra fosse conclusa a prevalere e che, invece, le cartoline di richiamo alle armi fecero riaprire gli occhi sulla realtà bellica, nonché i lutti che ogni famiglia dovette subire a causa della guerra e, non da meno, la resistenza alla fame furono messe a dura prova, dando seguito a una serie di pesanti realtà.
  •     Una prova per la maggior parte degli abitanti nel territorio della provincia di Ragusa fu quella di vedere, ancora, una certa area sociale benestante – rimasta vicino al fascismo – non partecipare agli stenti e, soprattutto, non partecipare alle richieste dell’alto commissario di ulteriori sacrifici in termini di versamenti all’ammasso.
  •    La guerra, dal canto suo, non portò quelle promesse gridate da Mussolini dal balcone di piazza Venezia, il 10 giugno 1940, anzi, che fecero inflazionare il valore commerciale dei beni primari a totale discapito dei più vulnerabili, aggiunse ulteriori lutti, non portando a casa i figli che le madri del territorio ragusano diedero alla Patria, per combattere in Russia e in Grecia.
  •    La “borsa nera” che, di fatto, poté essere utilizzata dai ceti borghesi e dai nobili, non certo da coloro che s’impoverirono sempre di più e che dignitosamente si limitarono, in molti casi, a mendicare, senza cercare di farlo capire pubblicamente.
    Nello scenario che si andò a rendere concreto, dal punto di vista sociale, questi furono fattori preminenti e incidenti sulle jacquerie verificatasi a Ragusa e nelle "dodici terre".
   Con riferimento, tra l’altro, agli equilibri dell’area del Mediterraneo – d’interesse sia degli americani quanto degli inglesi, ma anche dei russi – negli assetti dell’Italia postfascista, la sorte della Sicilia non fu per nulla marginale e soprattutto i territori iblei.
   Nella politica nazionale, però, l’incapacità comunicativa dei rappresentanti del CLN del governo dell’anziano Bonomi, non riuscì a portare a segno l’iniziativa avviata per fornire al fronte della Linea gotica uomini provenienti da questa regione, per ingrossare le fila del regio esercito. A ciò, l’azione incisiva del luogotenente del regno che combatté eroicamente assieme ai cinquemila soldati italiani del I Raggruppamento motorizzato nella battaglia di Monte Lungo, cercando di lasciare alla Storia un’opinione diversa agli alleati nei confronti degli italiani.
    Dal punto di vista della politica locale, inoltre, furono presenti altre basi d’interesse sulle circostanze:
  • sicuramente, i fascisti ebbero collegamenti con agenti repubblichini da Salò, per cercare di sobillare la formazione di nuovi reparti dell’esercito sabaudo e tra questi organizzarono comizi in piazza san Giovanni e in piazza Fonti, Molè e Nobile due studenti;
  • come i separatisti di Finocchiaro Aprile che appoggiarono i sommovimenti per aumentare le possibilità d’indipendenza, anche se nel ragusano non ebbero così molti accoliti;
  • non da ultimo, la posizione degli anarchici che si spinsero in conflitto col Partito comunista, non condividendo di dover andare a combattere in nome della monarchia, fiancheggiatrice del regime fascista, conclusero che fosse meglio «fari ‘u partiggianu ccà».
    Nella realtà, l’ordine di avviare una serie di retate per requisire coattivamente giovani uomini – di fatto, dei disertori e tra questi anche gli sbandati dell’8 settembre, che in parte rientrarono a piedi o con mezzi di fortuna da Roma liberata, come da altri territori esteri – per reimmatricolarli e inquadrarli in reparti di neo formazione non fu né compreso, né accettato da qualsiasi ceto sociale del ragusano; soprattutto, dopo che si videro i soldati della Divisione per la sicurezza interna “Sabauda”, in maggioranza sardi, entrare nelle varie case per “sequestrare” i giovani, alzando i calci dei fucili contro chi volesse rifiutarsi.
    Nei fatti, nelle popolazioni del ragusano le questioni riguardanti le ideologie politiche si posero in secondo piano, circa questo particolare evento, al punto che socialisti, comunisti, anarchici, democristiani, separatisti e perfino fascisti si trovarono nelle stesse barricate, in una lotta “civile” contro i fratelli italiani con l’uniforme.
    Nel dicembre di quell’anno, l’alto commissario Salvatore Aldisio – subentrato al prefetto di Palermo Francesco Musotto – rilevò che le quantità degli ammassi avrebbero potuto sfamare i siciliani solo fino alla metà di quel mese e, pertanto, dovette richiedere successivi versamenti di venticnque chili ad agricoltore, creando malcontento generalizzato.
   Il Partito comunista fece giungere a Ragusa il suo rappresentante siciliano – quel Girolamo Li Causi dei fatti di Villalba – che parlò nei locali della Camera del lavoro. Venuto per lodare la popolazione per le cifre raggiunte nell’ammasso e anche per confermare le richieste dell’alto commissario, ma, principalmente, per dare l’ordine di partire ai richiamati, intimando: «Non partire è come tradire i fratelli del Nord, che lottano per liberare l’Italia dal fascismo»; un ordine ricevuto dal compagno “Ercoli” e a tutti noto a seguito dell’intervista rilasciata proprio da Togliatti a “L’Unità”, pubblicata il 2 aprile 1944. Nella realtà, però, quella del Partito comunista si rese una posizione debole, poiché non riuscì a orientare tutta questa massa di giovani e anche perché molti compagni non ammisero che si dovesse andare a combattere in nome della monarchia. Li Causi, che conosceva il suo popolo, intuiva le conseguenze e cercava di corrispondere ai desiderata degli intervenuti e concluse: «L’importante è ca nun faciti fissarìe».
    In linea generale in Sicilia nel 1944 si concentrò una serie d’interessi, portati avanti da vari fronti: militari, politici e locali, tra cui gli indipendentisti e non da ultimo la mafia. In questo clima di confusione totale, i siciliani non vollero più essere trascinati e, soprattutto, non vollero più sentirne parlare di combattere “in nome dei Savoia”, poiché guardandosi attorno, videro non altro che miseria. Considerando la guerra terminata l’estate del 1943, cercarono di rivolgere lo sguardo oltre il fascismo di Mussolini, ma non riuscendo a trovare delle motivazioni e pensando al loro re che abbandonò gli italiani fuggendo da Roma, ormai sfiduciati, chiesero a gran voce l’adesione volontaria e non il precetto. Al governo, i partiti più vicini alla borghesia non accettarono quest’ultima soluzione, temendo la formazione di un esercito di popolo.
    Politicamente la provincia fu molto frazionata, del resto, Modica e Ispica furono le principali sedi del "separatismo" nel ragusano, mentre Ragusa stessa, culla del fascismo in Sicilia, ne rimase un capoluogo molto influenzato, grazie ai legami del sottosegretario alle Poste e Telegrafi Filippo Pennavaria[1] col duce.
    Nei fatti, quindi, la fine del 1944 e l’inizio del 1945 si rivelarono come dei giorni molto caldi di rivolta contro le forze dell’ordine, prefetto, questore, comandante del Distretto militare e, soprattutto, i regi carabinieri esecutori materiali dell’ordine delle cartoline di richiamo verso i disertori.
    A Vittoria, fu dal 12 dicembre che iniziarono i moti spontanei del “Non si parte”, col raduno di circa duecento giovani, che nel pomeriggio percorsero le vie del centro, lanciando frasi d’effetto, ormai ridondanti in tutta la regione. Proseguirono nei giorni successivi, aumentando di numero i giovani partecipanti, fino a giungere al municipio, dove furono distrutti i quadri raffiguranti il re Vittorio Emanuele III. La numerosa folla raggiunse un migliaio di cittadini e si fece sentire vigorosamente per le strade durante i giorni a venire, fortunatamente senza provocare incidenti né feriti, fino al giorno 20 dicembre.
    A Modica, con l’arrivo delle prime cartoline "rosa" iniziarono le prime manifestazioni pacifiche da parte degli studenti del liceo e dell’istituto tecnico ragioneria e geometri, e alla protesta spontanea che ci fu il 9 dicembre 1944, infatti, seguì quella del giorno 11 dicembre. In entrambe, si lamentò il servizio inefficiente dell’energia elettrica che impedì, tra l’altro, agli studenti di poter studiare nelle ore pomeridiane e serali, e si protestò, soprattutto, contro la chiamata alle armi. La folla decise di ripresentarsi anche l’indomani, ma l’intervento delle forze dell’ordine fece spostare tutto alle 9.30 del 15 dicembre.
    Fu, infatti, il 15 dicembre il fulcro delle proteste popolari che invasero il centro modicano, assalendo, principalmente, la caserma dei carabinieri, senza tralasciare di scagliarsi contro la sede dell’Unione nazionale degli ufficiali in congedo; questo per dare un segno tangibile di quello che sarà affermato come moto antimilitarista. I contestatori passarono, poi, al circolo “Unione” e al consorzio agrario; come segnale di rabbia dettata dalla fame, e alla fame del 1944 in Sicilia non è possibile dare alcuna spiegazione. Fu la volta del Municipio, verso cui passò la voce che fossero gli uffici leva e imposte da dover bruciare. Anche in questa città, come avvenne per l’esperienza di Catania, purtroppo, fu la sede comunale a subire i danni maggiori, soprattutto, nei confronti dell’archivio storico, in cui preziosi documenti di secoli precedenti – di quella che un tempo fu la gloriosa contea – andarono distrutti.
    A Comiso il 13 dicembre iniziarono i primi concentramenti di giovani che ricevettero le prime cartoline i quali in corteo si diressero verso il Municipio e riuscendo a introdursi, distrussero i quadri raffiguranti il re. Altri tafferugli si ebbero all’ufficio postale, ma, poi, la folla si disciolse. Siccome, dal Distretto militare di Ragusa giunsero altre cartoline, che imposero agli interessati di presentarsi dal 15 al 19 dicembre alla locale caserma dei carabinieri, il 15 dicembre ci furono altri cortei che impedirono l’accesso alla caserma dei carabinieri; nel pomeriggio la folla numerosa si spostò per le vie del centro, imponendo la chiusura dei negozi e a sera la folla si disperse.
   Anche la giornata del 16 iniziò con un lungo corteo dalla mattina presto, che invase pure gli ingressi delle scuole, costringendo alla chiusura; la manifestazione, poi, si sposto al Municipio dove ci fu l’invasione degli uffici, senza che i vigili urbani potessero fare molto per impedirlo. Ci fu un comizio improvvisato al termine del quale la folle si allontanò con appuntamento all’indomani.
   Il 17 dicembre, nel pomeriggio ci furono altri comizi nella piazza principale Fonte Diana, ma la rivolta alla chiamata alle armi finora si svolse senza ferimenti, anche se iniziò a covare un altro “concetto” di rivoluzione.
   A Scicli, diversamente da quanto accadde negli altri comuni ragusani, la gente si oppose ai moti. Manifestazioni si avviarono, comunque, il 9 dicembre, a causa della mancata erogazione della corrente elettrica.
   A Giarratana nella notte tra il 14 e il 15 dicembre, gran parte della popolazione e, soprattutto, i giovani che ricevettero le cartoline "rosa", qualcuno armato di moschetto e con delle bombe a mano, attaccarono la caserma dei carabinieri, impadronendosene. Il Municipio fu occupato e bruciato il carteggio dell’ufficio leva e quello del razionamento e inoltre, nell’ufficio comunale statistico economico dell'agricoltura fu distrutta ogni cosa che ricordasse ancora l’ammasso del grano.
   In questo piccolo paese, che basò tutto il suo sviluppo sulla produzione agricola, la maggior parte dei contadini vide quest’occasione come una possibilità di riscatto, ponendo principalmente la miseria e la fame quale prima motivazione per l’insurrezione popolare. Non da meno, fu portata avanti la reazione repubblicana nei confronti di una monarchia, che abbandonò il proprio regno in balia di massacratori tedeschi e invasori angloamericani.
    Di fatto in questi giorni a Giarratana fu proclamata una “repubblica”, sulla base di quella di Salò, con a capo un triunvirato di stampo fascista.
   Se l’impronta politica fu di tipo “sociale”, l’intento primario fu, comunque, la distribuzione del grano depositato nei granai del popolo: dodici chili a persona al prezzo di dieci lire al chilo, considerando che nel 1942, il pane costava 2,60 lire al chilo con prezzo calmierato.
   Il 16 dicembre dei posti di blocco sorsero nelle principali vie di accesso di Giarratana; la preoccupazione fu quella di dover combattere contro le forze dell’ordine, poiché nella caserma i carabinieri furono trattenuti sotto la minaccia delle armi, da parte dei manifestanti.
   Come preventivato una colonna di soldati e carabinieri, mandati a sedare la rivolta, entrarono senza colpo ferire nel paese e liberarono i carabinieri trattenuti nella caserma. Ci furono degli arrestati e tra questi Vittorio Dell’Agli, capro espiatorio, uno dei triunviri fascisti, che diverrà, successivamente, uno dei dirigenti del Movimento sociale ragusano.
   Il giorno successivo la folla riunitasi davanti alla caserma dei carabinieri chiese la liberazione dei fermati. Il giovane Dell’Agli, benvoluto dai suoi concittadini – che fecero pressioni nei confronti del comandante del Presidio il tenente colonnello dei reali carabinieri Giovanni Mandanici – fu liberato e con lui gli altri. In quell’occasione, grazie all’assenza di colpi di fuoco, per tutto il periodo delle operazioni di ristabilimento dell’ordine, il comandante invitò tutta la cittadinanza a presenziare a una funzione speciale nella chiesa di San Bartolomeo, a chiusura della particolare vicenda di Giarratana.
    A Chiaramonte Gulfi il 14 dicembre oltre un centinaio di giovani si riunirono in piazza, al quale si aggiunse gente richiamata dal tanto vociare, ma non ci furono problemi, mentre il 17 i cittadini furono numerosi e oltre al problema dei precetti militari, fu la rabbia che si scaricò contro i locali dell’esattoria comunale, per dichiarare l’ingiustizia delle tasse non pagate dalla classe borghese locale. Ci furono dei danni anche ai locali dell’ufficio del registro e del dazio.
    A Ragusa le prime manifestazioni ci furono il 12 dicembre e si parlò di duemila partecipanti per la maggior parte giovani e in generale richiamati dalle cartoline inviate dal regio esercito.
   Il giorno successivo al corteo mattutino degli operai dell’ABCD, nel pomeriggio, si organizzò una manifestazione spontanea alla quale, in maggior parte, parteciparono gli stessi giovani richiamati del giorno prima. Il 15 dicembre per le vie del centro e l’indomani si manifestò ancora, senza provocare danni, evidenziando la rabbia provocata dallo Stato, di abbandono verso i propri giovani ai quali non furono pagati i sussidi di disoccupazione e, invece, fu chiesto di partire per il fronte.
  Il 28 dicembre ci fu l’ultima manifestazione del mese, cui parteciparono moltissimi giovani provenienti dai vari comuni della provincia.




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[1]  Filippo Pennavaria fu il personaggio di spicco del fascismo ragusano, giudicato da alcuni "l'archetipo dell'opportunista", il professor Nicastro ne indica "il protagonista della elevazione di Ragusa a capoluogo di una provincia creata dal regime fascista per le sue esigenze politiche. Egli resta tuttavia un uomo benemerito della città di Ragusa e, in quanto tale, gli va reso l'onore che merita". In L. Nicastro, Filippo Pennavaria e Ragusa. Prima e durante il fascismo, La Biblioteca di Babele Edizioni, Modica, 2008, p. 10.

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