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25 aprile 2014

Alle Fosse Ardeatine anche la Sicilia sacrificò i suoi uomini, caduti per la libertà

Nel grande impegno della Resistenza. Per non dimenticare...



Una volta, quando le guerre nascevano da ragioni personali e si combatteva con piccoli eserciti di soldati professionisti, era possibile limitare le perdite dei combattenti, ma quando grandi popoli saranno scagliati gli uni contro gli altri, una guerra europea potrà soltanto terminare con la rovina dei vinti e con la disorganizzazione commerciale e l’esaurimento dei vincitori.
Winston Churchill

http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_101I-312-0983-03,_Rom,_Festnahme_von_Zivilisten.jpg
In questi giorni di settant’anni fa, il comandante della Polizia di sicurezza tedesca e del Servizio segreto in Roma, l’obersturmbannführer Herbert Kappler, fece inviare delle lettere ai familiari, in cui s’indicò che «ogni oggetto personale poteva essere ritirato presso il Servizio della Polizia in Via Tasso 155». Questa la formalizzazione dell’avvenuta morte il 24 marzo 1944, «forse» – Evtl. – così scrisse il tedesco.
   Furono trecentotrentacinque le lettere convalidate da questo «piccolo funzionario che non aveva nessun senso di umanità, né di diplomazia», come lo definì Eugen Dollmann, ufficiale di collegamento a Roma di Himmler.
   In città ci fu un certo movimento dopo che in via Rasella si udì una forte esplosione, il giovedì 23 marzo, alle 15.45 circa. Il resto della cittadinanza, la mattina del 25 marzo, su “Il Messaggero” lesse questo comunicato consegnato dai tedeschi:
Nel pomeriggio del 23 marzo 1944, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di Polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento anglo-americano. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati, nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è stato già eseguito. (Stefani)
   Chi agì, la definì un’azione di guerra, come altre già compiute dai Gruppi di azione patriottica di Roma, di varie estrazioni politiche antifasciste. In questo caso, i gruppi partigiani dell’area comunista, dai nomi “Gramsci”, “Pisacane” e “Sorsi” erano formati da pochissime persone che si conoscevano solo per il nome di battaglia. Comandati da Giorgio Amendola e inseriti nelle Brigate “Garibaldi” di Longo e Trombadori, avrebbero voluto dal nemico una risposta militare “maschia” e non un’azione vigliacca nei confronti di carcerati e civili rastrellati, quale la rappresaglia[1], rimasta alla Storia come «il più grave assassinio» compiuto dai tedeschi in una capitale europea.
   Prima della Grandeguerra, Churchill, nel discorso di nomina a primo lord dell’ammiragliato, nel 1911, fece un “presagio” e disse: «Le guerre dei popoli saranno più terribili di quelle dei re».
   L’armistizio dell’8 settembre 1943, fu il punto di partenza che si legò, di fatto, ai delitti attuati dai tedeschi nei confronti degli italiani, così per l’eccidio degli ufficiali e degli uomini della Divisione “Acqui” a Cefalonia e Corfù. Roma, però, al fine di evitare proprio episodi di rappresaglia nei confronti dei civili, dei patrimoni artistici e architettonici, nonché sede del Vaticano, già il 14 agosto fu dichiarata “Città aperta” − anche se più unilateralmente da Badoglio – visti i cinquantuno bombardamenti effettuati dagli americani, in cui persero la vita circa settemila persone, oltre a deportazioni di ebrei, uccisioni e rastrellamenti compiuti dai tedeschi. Al rischio di far decadere questa “tregua”, inoltre, contribuirono gli scontri della Cassia, della Magliana, della Montagnola e di Porta San Paolo, per citarne alcuni, tra il 9 e il 12 settembre.
   Seppur impeto di riscatto dal giogo nazifascista, dopo la liberazione di Mussolini del 12 settembre, per la capitale iniziasse la netta dominazione dei tedeschi al comando del generale Maeltzer e con la subordinazione dei fascisti-repubblichini di Mussolini, ci furono vari fronti partigiani a difenderla; Alfio Marchini – uno dei fondatori dei GAP – volle imporre, con azioni di guerriglia, che Roma fosse davvero una città aperta.
   Certo, la vita nella capitale dal 9 settembre 1943 al 4 giugno 1944 divenne, sicuramente, molto più pericolosa per i romani e, soprattutto, per coloro di religione ebraica. Prima dell’estate 1943, a Roma si stette in una specie di limbo, creato anche dalla presenza del papa: la capitale, in realtà, rimase fuori dalla guerra, nella convinzione che tutti quei tesori da essa custoditi non potessero essere distrutti; la gente visse con le razioni mensili di generi alimentari acquistati con la carta annonaria, che furono molto contenute. Tenendo conto che la paga di un operaio si aggirava a tre lire l’ora (all’incirca 0,02 euro), apparecchiare la tavola era molto difficile; si frugava nella spazzatura per cercare qualche torso, qualche foglia, delle bucce di ortaggi da poter utilizzare, senza olio, né sale, per nove mesi.
   Per gli organismi clandestini l’obiettivo fu il nemico, da abbattere con azioni isolate nella città, da questi conosciuta molto più dei tedeschi; azioni di guerriglia volte a colpire con spezzoni, ossia,  dei tubolari di telai di biciclette imbottiti di esplosivo lanciati dalle bici in corsa, contro tedeschi e repubblichini. Più pericolose furono le azioni isolate dei gappisti, volte a uccidere da vicino il nemico, a colpi di pistola; per questo motivo “il re di Roma”, come si fece chiamare Maeltzer, ordinò maggiori restrizioni per la popolazione romana, quale, ad esempio, il divieto di circolare con le biciclette, già dal dicembre 1943 e l'anticipo del coprifuoco alle 17.
   Il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, in accordo col governo di Brindisi, fu nominato comandante del Fronte militare clandestino, dal 10 ottobre 1943 a capo di reparti di ex militari e formazioni partigiane; fu collegato con via Carlo Poma, sede del Comitato di liberazione nazionale, istituito già il 9 settembre e formato da Amendola (PCI), Nenni (PSIUP), La Malfa (PdA), De Gasperi (DC), Ruini, (DL) e Casati (PLI).
   Il partigiano travestito da spazzino, che accese la miccia dell’ordigno esplosivo posto nel carrettino della nettezza urbana, di fronte a palazzo Tittoni in via Rasella 156, al passaggio della XI Compagnia di altoatesini del 3° Polizeiregiment “Bozen”, Rosario “Sasà” Bentivenga, nome di battaglia “Paolo” dichiarerà che l’azione fu avviata soprattutto per “colpire” militarmente gli attesisti, che a Roma non riuscirono a prendere iniziative contro le continue restrizioni poste, appunto, dal Sicherheitspolizei di Kappler.
   L’operazione in via Rasella fu organizzata in brevissimo tempo dai GAP centrali, su suggerimento di Amendola che vide per alcuni giorni percorrere lo stesso itinerario a un reparto di tedeschi, che proveniente da via del Tritone salì per via Rasella per passare, poi, dal Quirinale. Lo stato di clandestinità dei membri partigiani impedì di discuterne più dettagliatamente con i capi del CLN e, soprattutto, l’assenza del comandante Montezemolo – arrestato per delazione il 25 gennaio 1944, assieme al diplomatico Filippo De Grenet e al generale Quirino Armellini, all'uscita di una riunione in via Tacchini – accelerò i tempi d’intervento. Il 25° anniversario della fondazione dei “Fasci di combattimento”, da celebrare al teatro Adriano, infine, parve appropriato per dare un altro segnale ai repubblichini.
   All’azione parteciparono circa una dozzina di uomini, tra cui Guglielmo Blasi, Marisa Musu, Fernando Vitagliano, dislocati nella parte alta della via, come voluto dal “regista” Mario Fiorentini, collaborato da Lucia Ottombrini, che, tra l’altro, collocò all’angolo con via del Boccaccio, Carlo Salinari “Spartaco” e Franco Calamandrei “Cola”, con Francesco Curreli e Silvio Serra; a Raul Falcioni il compito di procurare il carrettino per “Paolo”. All’azione partecipò anche Carla Capponi, nome di battaglia “Elena”, del GAP “Pisacane”, che riuscì a distrarre degli uomini della polizia e farli allontanare da via Rasella. Nel frattempo, alcuni ragazzini, nello spazio di fronte alla sede de “Il Messaggero” in via del Tritone, stettero giocando col pallone, Pasquale Balsamo corse verso i bambini e diede un calcio al pallone, facendoli allontanare. Allo scoppio dell’ordigno seguirono altre esplosioni di bombe da mortaio, utilizzate per attaccare il più possibile il nemico; purtroppo, nel teatro dell’operazione persero la vita dei civili, che non riuscirono a essere sottratti alla linea di fuoco e alle esplosioni: Antonio Chiaretti, Enrico Pascucci, Antonietta Baglioni e un ragazzo di tredici anni Piero Zuccheretti, apprendista ottico in via degli Avignonesi.
   Hitler fu messo a conoscenza secondo la catena di comando, che il generale Maeltzer attivò dopo aver pianto i suoi soldati – ventotto uccisi sul posto dei centocinquantasei uomini componenti la compagnia – per impeto di supremazia, in un primo momento, “il re di Roma” chiese di rastrellare l’intero quartiere per poi distruggerlo; intanto, dopo una serie di colloqui con i suoi generali, Hitler passò all’idea di fucilare per rappresaglia cinquanta italiani per ogni soldato tedesco deceduto. Nell’immediato, un centinaio di persone furono rastrellate nella zona e ammassate con le mani sopra la testa, lungo il muro di cinta del palazzo Barberini, in via delle Quattro Fontane. Col trascorrere del tempo i morti aumentarono per divenire al totale di trentatré, mentre altri nove spireranno nei giorni successivi.
   La preoccupazione di chi fu in continuo contatto con i vertici nazisti a Roma, aumentò esponenzialmente e tra questi, padre Pancrazio Pfeiffer generalizio dei Padri salvatori che, appena ragguagliata qualche notizia, si recò in via Tasso per parlare direttamente con Kappler, poiché, l’Ambasciata tedesca presso la Santa Sede fu molto evasiva nelle informazioni. Il padre generale cercò d’interporre i suoi buoni uffici nei confronti di Kappler, per cercare di mitigare la furia di vendetta e chiese, peraltro, quale portavoce del pontefice, di non procedere alla fucilazione per rappresaglia. Kappler ragguagliò il sacerdote circa l’ordine ricevuto da Hitler in persona. Il pensiero di padre Pancrazio, allora, non poté che correre verso don Pietro Pappagallo – il padre salesiano vice parroco della basilica di San Giovanni in Laterano – un uomo che si prodigò in soccorso di ebrei, soldati sbandati e antifascisti, arrestato nel gennaio 1944, a seguito della denuncia da parte di un altro genere umano formato da spie di ebrei e di patrioti, delatori prezzolati e collaborazionisti, che gareggiarono in crudeltà con la Gestapo; Guglielmo Blasi, ex gappista, fu uno di questi. Don Pietro, originario di Terlizzi, era benvoluto dai parrocchiani per quel suo modo di comportarsi indistintamente nei confronti di tutti coloro che gli chiedevano di essere confortati. Fu l'unico sacerdote cattolico vittima della rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine.
   Al sacrificio di vite umane imposto dalla rappresaglia tedesca furono chiamati molti militari italiani e tra essi numerosi gli ufficiali, oltre ad antifascisti di vari ceti sociali incarcerati in via Tasso e “Regina Coeli” e non da ultimo, per colmare i numeri, furono inseriti uomini ebrei, tra i quali alcuni provenienti da altre nazioni.
   Nei vari elenchi – che furono stilati con “precisione teutonica” con la collaborazione fornita dal questore Pietro Caruso, nonché dal ministro Buffarini Guidi – formati da persone «degne di morte», questa la frase usata: intendendo tali non solo persone imprigionate, verso le quali erano state già emesse sentenze di morte, ma anche di quelle in attesa di esecuzione o detenute per attività partigiane o atti di sabotaggio, furono coinvolti uomini di origini siciliane, di diverse estrazioni sociali e provenienze.
   Un argomento, questo della rappresaglia, che offre un ulteriore spunto di riflessione sulle interpretazioni della Resistenza dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, le quali nel contesto comunicativo – oggetto di un civile sviluppo sociale – sono da ritenersi utili per cercare di comprendere come il fascismo e l’antifascismo siano percepiti nel nostro Paese.
  
Nell’elenco tra i centocinquantaquattro detenuti a disposizione dell'Aussenkommando, il comando di polizia, sotto inchiesta ci furono:
Agnini Ferdinando, fu Gaetano e di Longo Giuseppina, nato a Catania il 24.8.1924. Diciannove anni. “Nando” studente di medicina fu una delle figure di spicco della Resistenza romana, che agì nel quartiere Montesacro. Fu tra i fondatori dell’Associazione rivoluzionaria studentesca italiana, che svolse compiti di reperimento delle armi, occupandosi di propaganda antifascista e di azioni di sabotaggio sulle vie Nomentana, Salaria e nel quartiere Prati, e che confluì, nel febbraio 1944, nell’Unione studenti italiani. La sua cattura fu decisa dai gerarchi fascisti dopo che si attivò per creare con Maurizio Ferrari il Comitato di agitazione studentesca, per contestare l’esclusione dagli esami di studenti antifascisti. Ai primi di febbraio del 1944 entrò a far parte della Brigata “Garibaldi” del Partito comunista. Catturato su delazione il 24 febbraio, fu rinchiuso in cella in via Tasso col padre Gaetano giornalista, però quest’ultimo fu risparmiato.
   Una lapide nel Liceo classico “Quinto Orazio Flacco” fu posta dopo il 25 aprile 1945:
In questa Aula – Pur in oscuri tempi di vivere servile – A forti e liberi sensi – Educò mente e cuore – Ferdinando Agnini – che alle Fosse Ardeatine il 24.3.1944 – Immolava – Vittima consapevole – La sua giovinezza all’umanità libera – Professori e studenti lo vollero ricordare.
    Artale Vito, fu Antonino e Amedei M. Anna, nato a Palermo l’1.3.1882. Sessantadue anni. Tenente generale del regio esercito proveniente dal Servizio tecnico di artiglieria, partecipò alla guerra di Libia e alla Grandeguerra, anch’egli operò nel quartiere Montesacro con le forze clandestine della Resistenza; fu arrestato e condotto in via Tasso il 9 dicembre 1943, per aver sabotato gli impianti delle Vetrerie d’ottica dell’esercito, di cui fu nominato direttore, operandone la manomissione per evitare che i macchinari cadessero in mano nemiche.
   La motivazione della “medaglia d’oro al valore militare alla memoria”, così recita:
Dirigente delle Vetrerie d’ottica del R.E. che con appassionata, intelligente abnegazione aveva portato ad alto grado di perfezione produttiva, svolse subito, dopo l’occupazione di Roma, in collaborazione con i suoi fidi, intensa attività allo scopo di mettere in salvo e sottrarre alla furia distruttrice e spogliatrice nazifascista, documenti e materiali di cospicuo valore militare e civile e di rendere inutilizzabili apparecchiature e macchine. Tale azione di sabotaggio, compiuta con temerità sdegnosa di ogni prudenza, sotto gli occhi dei tedeschi e negli stessi locali da essi presidiati, sospettata prima, scoperta poi, condusse al suo arresto. Dopo tre mesi e mezzo di carcere serenamente sopportato, il 24 marzo 1944, fu trucidato alle Fosse Ardeatine. Esempio luminoso di attaccamento al dovere, di senso di responsabilità e di fortezza d’animo spinta fino al sacrificio della vita coscientemente immolata nell’esaltazione fervida dell’ideale supremo della Patria.
Roma, 8 settembre 1943 – 24 marzo 1944
     Avolio Carlo, fu Federico e Maltese Francesca, nato a Siracusa il 14.9.1885. Cinquantotto anni. Maggiore del regio esercito, grande invalido, mutilato e pluridecorato della Grandeguerra, impiegato della Società anonima importazione bovini, aderì alla Resistenza nelle file del Partito d’azione; quando fu arrestato il 28 gennaio, per una delazione, finì in carcere a via Tasso, da dove fu prelevato per la rappresaglia tedesca.
   Butera Gaetano, di Giuseppe e D’amico Maria, nato a Riesi l’11.9.1924. Diciannove anni. “Tano” pittore e decoratore calatino, dopo l’8 settembre si trovò a Roma in servizio nel 4° Reggimento carristi, ricostituito dal 15 marzo 1941; partecipò alla difesa della città e appena disciolto il reggimento confluì nel Fronte militare clandestino, operò nel quartiere Quadraro dove risiedé. Caduto in un’imboscata durante un’azione di sabotaggio nell’aeroporto di Ciampino finì nelle carceri di via Tasso il 15 febbraio, insieme a Butticè, da dove poi ne uscì solo per la rappresaglia tedesca. 
   Successivamente, gli fu attribuita la “medaglia d’oro al valore militare alla memoria”, con la seguente motivazione:
Audace patriota appartenente ad un gruppo di bande armate operanti sul fronte della resistenza, si distingueva per attività, coraggio ed alto rendimento. Incurante dei gravi rischi cui continuamente si esponeva, portava a compimento, brillantemente, tutte le missioni operative affidategli facendo rifulgere le sue doti di ardito combattente della libertà ed assoluta dedizione alla causa nazionale. Arrestato dalla sbirraglia nemica durante un’azione di sabotaggio, sopportava con fierezza nelle celle di tormento di via Tasso le barbare torture inflittegli senza nulla rivelare sull’organizzazione di cui faceva parte. Condannato a morte affrontava serenamente l’estremo sacrificio, pago di aver fatto il suo dovere verso la Patria oppressa, con l’olocausto della vita.
Roma, settembre 1943 – marzo 1944
    Butticè Leonardo, di Pasquale e Sciarrotta Giuseppa, nato a Siculiana il 2.2.1921. Ventitré anni. Primo aviere della regia aeronautica, agrigentino, fu arruolato nella caserma “Cavour” dell’aeronautica e inserito nell’officina meccanica; dopo l’8 settembre, l’incontro con la fidanzata Aida Romagnoli (sorella di Goffredo, altra vittima della rappresaglia) gli cambiò la vita e si mise a disposizione della Resistenza, nella Brigata “Matteotti” del Fronte militare clandestino; operò nella VIII Zona, nel quartiere Quadraro, azioni di sabotaggio dei mezzi tedeschi, diretti a Cassino e Anzio. Su segnalazione di un delatore, fu arrestato poiché trovato con cinque chili di fili di rame presi da un condotto elettrico sulla strada di Ciampino. Anch’egli il 15 febbraio, insieme a Butera, finì nelle carceri di via Tasso, da dove poi ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Dal generale Roberto Bencivenga, comandante civile e militare di Roma gli fu attribuita la “medaglia d’argento al valore militare alla memoria”, con la seguente motivazione:
Fervente patriota appartenente a banda armata operante nel fronte della Resistenza, si prodigava incessantemente nella dura lotta clandestina contro l’oppressore tedesco, trasfondendo nei suoi compagni di lotta il suo coraggio e l’elevato amore di Patria. Incurante dei rischi cui si esponeva portava a compimento valorosamente, in circostanze particolarmente difficili, numerose azioni di sabotaggio. catturato dalla polizia nazifascista, conscio della sorte che gli era riservata, opponeva ad ogni barbara tortura il suo fermo stoicismo, affrontando serenamente la fucilazione, pago di aver contribuito col sacrificio della sua giovane vita alla causa della libertà.
Ottobre 1943 – Marzo 1944
    Giordano Calcedonio, di Gaspare e Di Pisa Maria, nato a Misilmeri l’11.7.1916. Ventisette anni. Corazziere dei regi carabinieri il palermitano, arruolatosi nel 1936 nell’Arma, partecipò anche alle selezioni per la Scuola allievi ufficiali di Firenze avendo il titolo di studio e per “vocazione” per aver ricevuto un’educazione rigida dai suoi familiari, dedita al servizio della Patria, ma l’alta statura lo portò a svolgere servizio di carabiniere guardia alla legione di Roma. All’indomani dell’8 settembre si ritrovò tra i gruppi di militari sbandati al seguito del generale Filippo Caruso e dopo aver portato a termine importanti missioni militari, fu arrestato il 14 febbraio e condotto in via Tasso per gli interrogatori, poiché appartenente al Fronte militare clandestino.
   Fu decorato “medaglia d’oro al valore militare, alla memoria”, nella cui motivazione fu sottolineato, tra l’altro che "noncurante dei rischi cui si esponeva, portava a compimento valorosamente le numerose azioni di guerra affidategli".
   Lungaro Pietro Ermelindo, fu Alberto e di Caltagirone Vita, nato a Monte San Giuliano l’1.6.1910. Trentatré anni. Vice brigadiere di pubblica sicurezza, trapanese, si arruolò alla Scuola allievi sottufficiali del regio esercito e poi transitò nel Corpo degli agenti di pubblica sicurezza e prestò servizio alla caserma “S. Eusebio” in Roma. Dopo l’armistizio, nonostante i suoi ideali monarchici, divenne uomo di collegamento con le nascenti formazioni antifasciste del Partito d’azione, capeggiate dal maggiore dell’aeronautica Umberto Grani. A causa di una spiata fu arrestato il 7 febbraio in caserma dagli agenti del famigerato Reparto speciale di polizia del collaborazionista Pietro Koch, che lo condussero nella prigione di via Tasso, da dove poi ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Fu decorato “medaglia d’argento al valore militare, alla memoria”, con la seguente motivazione:
Arrestato per aver svolto attività patriottica, sopportava impavido i rigori di dura prigionia e stoicamente subiva torture. Barbaramente trucidato, immolava la sua giovinezza per le maggiori glorie della Patria e della Libertà. Fulgido esempio di cosciente ardimento, di fede assoluta nei destini della Patria, di piena dedizione alla sua causa.
   Pitrella Rosario, fu Giuseppe e di Buffalini Giovanna, nato a Caltagirone il 17.11.1917. Ventisei anni. Aviere scelto della regia aeronautica e meccanico, svolse attività clandestine nelle fila del Partito comunista, cercando di fornire armi; fu arrestato nel rione Colonna il 28 gennaio, per azioni di contrasto contro i tedeschi e condotto in via Tasso, da dove poi ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Rampolla Giovanni, di Michelangelo e Lembo Antonia, nato a Patti il 16.6.1894. Quarantanove anni. Tenente colonnello del regio esercito, messinese, fu membro della Loggia massonica di piazza del Gesù e si prodigò alla difesa della capitale nella Brigata “Vespri” del Fronte militare clandestino. Fu arrestato il 22 o 28 gennaio e incarcerato in via Tasso, da dove, poi, ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Rindone Nunzio, di Antonio e Buscemi Carmela, nato a Leonfonte il 29.1.1913. Trentuno anni. Di umili origini, pastore nell’ennese si trovò a Roma dopo l’armistizio e decise di aderire al fronte partigiano, fu arrestato fine dicembre 1943 e detenuto in via Tasso, da dove poi ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Zicconi Raffaele, fu Lorenzo e Olla Anna, nato a Sommatino il 13.8.1911. Trentadue anni. “Lino” nisseno, visse a Roma quale impiegato delle poste, ma dopo l’8 settembre si schierò col Partito d’azione. Fu considerato un partigiano molto affabile, ma a seguito di un’azione di sabotaggio di alcuni pali telegrafici, fu tradito e fu arrestato il 7 febbraio, tradotto prima in via Tasso e poi nel carcere di “Regina Coeli”, 3° braccio, cella 367. Sperava in una condanna “magari di trent’anni”, ma purtroppo, all’indomani dell’attacco in via Rasella, fu prelevato per la rappresaglia tedesca.
   Nell’elenco tra i ventitré a disposizione del Feldreich, il tribunale militare tedesco, in attesa di giudizio ci furono:
   Ialuna Sebastiano, di Agrippino e Salerno Ignazia, nato a Mineo il 10.10.1920. Ventitré anni. “Janu”, agricoltore catanese benestante, come molti richiamati alle armi è di stanza nella zona di Roma. Dopo l’8 settembre da sbandato vagabonda per la campagna romana, trovando rifugio in casolari di amici e di parenti. Per una spiata, in seguito a un rastrellamento intorno a Velletri, fu arrestato il 7 marzo e tradotto in carcere a “Regina Coeli”, ma ne uscì solo per la rappresaglia tedesca.
   Morgano Santo, fu Antonio, nato a Militello il 30.8.1920. Ventitré anni. Elettromeccanico catanese fu coinvolto nella Resistenza dopo lo sbandamento dell’8 settembre. Fu arrestato e portato a “Regina Coeli”, tra gli sfortunati presi di mira e inserito negli elenchi per la fucilazione alle cave dell’Ardeatina.
   Nell’elenco tra i dieci fermati in via Rasella il 23 marzo 1944:
   D’Amico Cosimo, fu Luciano e di Vasetti Maria, nato a Catania il 4.6.1907. Trentasei anni. Amministratore teatrale; fu arrestato il 23 marzo stesso dell’azione partigiana, il tempo di transitare per il carcere e il 24 marzo fu trasportato dai camion alle cave Ardeatine e si ritrovò davanti ai carnefici tedeschi per l’esecuzione.
   Nell’elenco tra i non identificati fino al 2010:
   La Rosa Salvatore di Aragona. Fu inserito nell’elenco tra i centocinquantaquattro detenuti a disposizione dell’Aussenkommando. Artigliere agrigentino, dopo l’8 settembre rimase a Roma e abbracciò la lotta partigiana. Una spiata lo fece arrestare e fu portato a “Regina Coeli”. Anch’egli fu inserito nell’elenco da inviare a morte nelle cave Ardeatine.
   Sepolto nella tomba numero 273, dopo l’accertamento sulle ossa tumulate, avviato dal 2010 al 2012, si è scoperto che il suo dna combaciasse perfettamente con quello fornito dalla figlia Angela Alaimo La Rosa, la quale ha avuto la costanza di scrivere a molti presidenti della Repubblica e ad autorità varie. Non ci sperava più. Sembrava che la riesumazione e la ricerca delle identità con le nuove tecniche fosse, infatti, un’impresa impossibile.
   Michele Partito, nato a Casteltermini nel 1914. Trent’anni. Agrigentino inserito nell’elenco tra i centocinquantaquattro detenuti a disposizione dell’Aussenkommando, anch’egli, quindi si trovò nelle celle di via Tasso, forse finito per caso nella lista della decimazione.
   Al sarcofago numero 155, grazie al minuzioso lavoro dei RIS di Roma confrontando il dna del nipote Edoardo, si è potuta riconoscere questa salma. Una vita cancellata ma rimasta nei ricordi dei parenti, che non avevano avuto più notizie dello zio, dall’inverno del 1944.



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[1] Il preteso “diritto” alla rappresaglia si basava su un’interpretazione estensiva dell’art. 43 della convenzione dell’Aja del 1907, che richiedeva all’occupante di mantenere l’ordine pubblico: tale articolo veniva richiamato, soprattutto dal diritto militare tedesco, per giustificare la rappresaglia (esplicitamente vietata dagli artt. 46 e 50 della stessa convenzione dell’Aja), in base ad una presunta lacuna su tale punto, che sarebbe stata colmata dal diritto consuetudinario.

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