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8 settembre 2013

Per le vittime di Cefalonia e Corfù, anche nei comuni iblei si pianse


Nell’ambito della guerra principiata da Mussolini nel giugno 1940, in cui le forze armate italiane furono chiamate a uscire dalle caserme per dare seguito alla politica espansionistica fascista voluta dal duce, come non porre l’attenzione sull’eccidio perpetrato dai tedeschi nelle isole di Cefalonia, Corfù e isole minori.
    Nella ricorrenza del 70° anniversario, cercando di rievocarne la memoria, al fine di rendere vivo il ricordo delle vittime, come fare, nel trascrivere dei momenti così cruciali – di vita o di morte, per comprendere i sentimenti di chi si sia trovato in quelle condizioni di scelta?
    Per quanto riguarda la circostanza di Cefalonia e Corfù è necessario evidenziare che l’armistizio “breve” fu firmato a Cassibile il 3 settembre 1943, ma la dichiarazione di stato di guerra con la Germania fu consegnata dal consigliere dell’Ambasciata italiana in Madrid Pierluigi La Terza all’ambasciatore di Germania Hans Dieckhoff, nel pomeriggio del 13 ottobre 1943. La storia dei martiri di Cefalonia e Corfù, purtroppo, va a collocarsi in questo intervallo, legato all’assenza di quest’ultimo provvedimento, al quale si associa la responsabilità del governo Badoglio, che lasciò le truppe italiane in Italia e fuori dai confini abbandonate al loro destino.
   «Spezzeremo le reni alla Grecia», queste le dichiarazioni di Mussolini pronunziate il 15 luglio 1940. Nell’ottobre 1940, il governo fascista iniziò a mettere in piedi un piano d’attacco per continuare la politica d’espansione verso i Balcani ai danni della Grecia, che fu individuata come prossima terra di conquista. All’epoca la Divisione "Acqui" era al comando del generale Luigi Mazzini.
   Cefalonia, successivamente, fu occupata dalle truppe italiane paracadutate il 1° maggio 1941; il compito di presidio dell’isola fu affidato alla Divisione "Acqui" comandata ora dal generale Antonio Gandin, che stabilì il proprio comando ad Argostòli. Gli invasori italiani presidiarono la zona, istituendo anche dei campi di prigionia in cui rinchiusero i partigiani greci che effettuarono azioni di guerriglia. Ciò nonostante, la permanenza nell’isola rese più attenuati i rapporti con la popolazione, facendo conoscere, in tal modo, un nemico che non effettuò atti di brutalità; che seppe conquistarsi il rispetto della gente, al punto che ci furono oltre duecento matrimoni dei soldati italiani con le donne greche, anche se non sempre le famiglie condivisero queste unioni. Finché non arrivò l’armistizio dell’8 settembre 1943, che portò con sé gioia, ma anche, incertezze e sconforto.
   Nella serata, dal Comando italiano ad Atene – sottoposto al controllo di generali tedeschi – arrivò, comunque, l’ordine di tenersi al fianco dei tedeschi, anzi, di consegnare le armi ai tedeschi. Il 9 settembre, all’alba dell’ufficializzazione dell’armistizio con gli alleati, l’ordine di Hitler impose il disarmo delle truppe italiane; ordine che avrebbe dovuto immediatamente essere eseguito, pena la fucilazione. Da questo momento è stata considerata da diversi punti di vista e con diverse – se non opposte – affermazioni, la posizione del generale Gandin, che si rifiutò di cedere le armi ai tedeschi, cercando di guadagnare tempo.
Il dato di partenza fu l’ordine inviato dal Comando supremo del cosiddetto “Regno del Sud”, da Brindisi:
N.1027/CS. Risposta 41414 data 11 corrente /./ Truppe tedesche devono essere considerate nemiche /./ Marina Brindisi /./
   A seguire:
N. 1029/CS. = Comunicate at Generale Gandin che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia et Corfù et altre isole /./ Marina Brindisi /./
   Il quadro del teatro operativo, al momento, evidenziava le truppe tedesche sicuramente in numero inferiore a confronto di quelle a disposizione della divisione, ma più efficienti per armamento e mobilità e con un forte appoggio aereo, mentre agli italiani non restava che attendere il nemico nelle postazioni. Inoltre, nei colloqui avuti dal generale Gandin col tenente colonnello Johannes Barge, comandante del Presidio tedesco sull’isola, per temporeggiare – nella speranza di ottenere rinforzi dall’Italia o dagli anglo-americani – egli ordinò di ritirare le truppe da Kardakàta, operazione tattica che si rivelò decisiva per la sopravvivenza della divisione.
   L’ordine del Comando supremo, dettato l’11 settembre dal capo di Stato Maggiore Generale, generale Vittorio Ambrosio e dal capo di Stato Maggiore Esercito, generale Ezio Rosi, fu firmato dal sottocapo di Stato Maggiore, generale Francesco Rossi. Purtroppo, foriero di conseguenze “non previste”, che sebbene l’atrocità trovasse una sorta di giustificazione nella mancata dichiarazione di guerra contro la Germania, fu la causa del martirio avvenuto nel periodo dal 15-25 settembre, a Cefalonia e Corfù e nelle isole minori.
   L’assenza della dichiarazione di guerra – in quell’intervallo – evidenziò un aspetto, su cui i tedeschi costruirono la loro posizione: in altre parole, pose i tedeschi nella possibilità di non contemplare i prigionieri all’interno delle Convenzioni di Ginevra, considerandoli degli irregolari, dei “partigiani”, infatti, coloro che furono trasportati ai campi di concentramento furono definiti IMI – Internati militari italiani. Durante quell’intervallo, le forze armate italiane rimasero senza ordini dal Comando supremo, totalmente allo sbando, col re Vittorio Emanuele III che fuggì alla volta di Brindisi, prelevato da Badoglio sul cacciatorpediniere "Baionetta".
   Un altro aspetto, di natura tattica, fu l’avvio di truppe tra il 5 e il 10 agosto, a ingrossare le fila della Wehrmacht, agli ordini del tenente colonnello Barge. Quest’ordine provenne da Hitler che ebbe sentore di un eventuale armistizio da parte degli italiani, in considerazione dell’avanzata delle truppe alleate in Sicilia.
   L’emanazione degli ordini italiani in data 11 settembre, ma che raggiunsero il generale Gandin lunedì 13 settembre, andò verso l’espressione degli animi di numerosi ufficiali, che si dichiararono pronti ad attaccare i tedeschi, a qualunque costo. A conferma, all’alba, il capitano Amos Pampaloni ordinò di fare fuoco alla sua batteria in direzione di due navi tedesche, che la mattina del 13 settembre si avvicinarono verso la costa, in prossimità di Argostòli, per portare rifornimenti alle loro truppe. Nel pomeriggio, il generale comandante dell’Armata tedesca Hubert Lanz ordinò alla Divisione "Acqui" di cessare il fuoco e di consegnare le armi.
   Il 14 settembre partì la risposta della Divisione "Acqui" a firma del suo comandante – che però è rimasta ancora oggi oggetto di riflessioni e di diverse interpretazioni. Il generale Gandin convinto della necessità di tenere alto l’onore raccolse il parere degli ufficiali e della truppa dei reparti di stanza in Argostòli, prima di inviare la risposta scritta al tenete colonnello Barge, anche se ebbe chiaro che Cefalonia presto fosse divenuta una fortezza tedesca, presidiata dall’aviazione. La traduzione dal tedesco della copia della risposta di Gandin cita: «La Divisione si rifiuta di obbedire al mio ordine»; le testimonianze dei sopravvissuti indicano che il testo della nota di risposta sia stata:
Per ordine del Comando supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione Acqui non cede le armi.
   La battaglia fu decisa dalla superiorità aerea tedesca, che dal 15 settembre iniziò i bombardamenti, ma per quella giornata gli attacchi furono respinti dalle truppe italiane. Gli scontri si susseguirono per le giornate successive e il 19 settembre al comando tedesco giunse un ordine perentorio di Hitler, di non fare prigionieri, perché i soldati italiani erano dei ribelli e dei traditori.
   Il 21 settembre le truppe tedesche piombarono sopra la resistenza italiana, sopraffacendola. Mercoledì 22 settembre fu issata “bandiera bianca” dal comando della Divisione "Acqui". A seguito dell’ordine di Hitler, gli ufficiali della Wehrmacht effettuarono i rastrellamenti e si macchiarono di «Un crimine contro l’umanità» come lo definì il generale americano Maxwell D. Taylor a Norimberga: Troianata 631 morti; Valsamata 300 morti; Phrankata 461 morti; Pharsa 350 morti; Prokopata 148 morti; Kuruklata 300 morti; Corfù 6-700 morti, questi alcuni numeri delle fucilazioni di massa.
   Un numero attorno a cinquemila i soldati italiani fucilati, morti in combattimento, dispersi in battaglia e in mare, fu quello che si definì: «La prima resistenza italiana contro i tedeschi».
   Nel marzo 1953, a Bari fu celebrata una cerimonia, alla presenza del presidente della Repubblica Einaudi, per accogliere i resti del generale Gandin e le salme di mille dei caduti della “Acqui”, trasportate in Italia dai cacciatorpedinieri "Stromboli" e "Tricolore", per essere sepolti nell'Ossario che Bari si accingeva a erigere.
   In occasione della commemorazione del 70° anniversario a Pozzallo, terra natia di Giorgio La Pira, con un monumento sono stati ricordati i martiri di Cefalonia e Corfù e i superstiti che riuscirono a far ritorno nelle loro famiglie in terra ragusana. Il cippo marmoreo è stato donato alla città da parte dei familiari dei caduti e dei superstiti della Divisione "Acqui".
   Tra i superstiti pozzallesi si ricordano Angelo Emilio, che cercò di tenere alta la memoria dei suoi compagni di sventura – finché in vita, come pure fece Giovanni Santaera. Internato nei lager, ma che riuscì a fare ritorno fu Francesco Abbondo. Di questi anche il modicano Orazio Cavallo, con Antonino Gennaro che fu preside della Scuola media "Giuseppe Rogasi" di Pozzallo. Ancora il ragusano Giovanni Distefano artigliere del 33° Reggimento artiglieria; Giuseppe Criscione fece ritorno con il comisano Giorgio Cascone. Giorgio Lo Iacono e Cosimo Pinio vivono a Palermo e Giuseppe Benincasa negli Stati Uniti.
   Caduti della Divisione "Acqui" originari della provincia di Ragusa furono: del 7° Battaglione carabinieri, il carabiniere Antonio Monteforte di Scicli; del 17° Reggimento fanteria, il fante Giovanni La Lota di Vittoria; del 317° Reggimento fanteria, il sergente Francesco Occhipinti di Vittoria, il caporal maggiore Rosario Buscema di Modica, i fanti Carmelo Cilia di Ragusa, Rosario Brafa, Antonino Buffa, Orazio Frascacaccia, Vincenzo Giallongo tutti di Modica, i fanti Biagio Bini, Giovanni Di Giacomo, Francesco Dicara di Comiso, i fanti Francesco Asta e Angelo Magro di Scicli, il fante Natalizio Franzo di Ispica.




© 2013
Per citare questo articolo
G. La Rosa, Per le vittime di Cefalonia e Corfù, anche nei comuni iblei si pianse, in "Il tempo la storia. L'anno zero dell'Italia giovane e creAttiva", R. Bonuglia (a cura di), Roma, Edizioni Il Tempo la Storia, 2013.