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10 luglio 2013

Vincenzo Barone: le libertà di oggi, i sacrifici di ieri. Per non dimenticare


La pianificazione di Husky fu alquanto complessa, perché ciascuna forza armata, di entrambi gli alleati, rappresentò i propri problemi o cercò di vedersi assegnare compiti più importanti, da parte del Comando supremo.
    A capo del Comando supremo fu posto il generale americano Eisenhower; al generale Patton fu dato il comando delle forze americane; al generale Montgomery quelle inglesi e il generale inglese Alexander avrebbe dovuto coordinare tutte le truppe di terra.
   Il piano definitivo prevedeva che dal giorno X al giorno X+3, truppe aviotrasportate avrebbero dovuto conquistare gli aeroporti. Gli inglesi con tre divisioni sarebbero sbarcati fra Siracusa e Gela. Gli americani con altre unità inglesi avrebbero attaccato Catania occupandone l’importante scalo. Due giorni più tardi la Forza 141 americana avrebbe operato sulla costa palermitana per conquistare il capoluogo dell’Isola.
   All’attacco pratico, il piano subì alcune modifiche che furono peggiorative.
   Nel primo pomeriggio del 9 luglio 1943, Alexander, Eisenhower e l’ammiraglio Cunningham erano riuniti a Malta in ansiosa attesa: il mare era agitato da forti venti che soffiavano a 60 km/h, le navi erano pronte, alcune già partivano sballottate dai flutti, con il loro carico umano. Gli alleati destinati all’aviosbarco sarebbero stati ostacolati dal vento forza 7, bisognava forse rimandare l’attacco al “ventre molle dell’Europa”?
   Fra tante perplessità prevalse la decisione di Eisenhower, che diede il via all’operazione: gli alleati cominciarono a liberarsi incerti nel cielo, appesantiti dal carico e ostacolati dal vento, volarono quasi a pelo d’acqua; la flotta fu già sulla rotta prevista. Alle ore 1,15 del 10 luglio, le prime bordate delle corazzate alleate facevano cadere su Catania i loro enormi proietti da 380 mm.
   L’attacco non aveva beneficato del vantaggio della sorpresa, infatti, già alle 16,30 del giorno precedente un ricognitore tedesco aveva segnalato cinque convogli nemici, facenti rotte per la Sicilia. Il generale Guzzoni, comandante di tutte le forze di stanza sull’Isola, alle ore 19,00 aveva posto in preallarme tutti gli apprestamenti difensivi, alle 22,00 i reparti erano già in stato di allerta. Le forze italiane di terra erano costituite dalla sola VI Armata su due corpi d’armata, agli ordini del generale Arisio (XII C.A.) e Rossi (XVI C.A.).
   Quando i primi aerei apparvero in prossimità della costa, un fuoco contraereo intensissimo delle nostre batterie costrinse la formazione ad abbandonare la rotta per le zone di lancio: gli stormi si scompaginarono, il fumo delle esplosioni e i fasci delle fotoelettriche disorientarono i piloti degli aerei, trainanti gli alianti. Molti sganciarono i cavi prima del tempo sparpagliando sul mare i rimorchiati, che dovettero tentare fortunosi ammaraggi.
   Nella sostanza, l’aviosbarco si tradusse in un disastro; motolancie italiane mossero in soccorso dei naufraghi che si dibatterono fra i flutti fino a 6 km: dalla riva, una di queste, ne raccolse un centinaio e li portò a Siracusa. Lo stesso generale Hopkins, al comando della 1a Divisione aviotrasportata inglese, fu ripescato in extremis dalla nave Karen. Montgomery, nel suo diario The invasion of Sicily avrebbe, più tardi, avuto parole di biasimo per i piloti degli aerei che trainarono gli alianti con i paracadutisti a bordo.
   Il tenente Withers raggruppò un certo numero di sbandati, cui man mano si unirono altri; con questi, come in un miraggio, vide apparire davanti a sé il ponte sul fiume Anapo, che costituì il più importante obiettivo da conquistare. Con i suoi uomini riuscì a disinnescare le cariche predisposte per farlo saltare in caso di necessità e attaccò il fortino posto a presidio, riuscendo ad avere facilmente ragione dei pochi difensori. Altri plotoni inglesi riuscirono a impadronirsi di centri nevralgici importanti, come la centrale radio di Capo Murro di Porco e una batteria costiera nei pressi di Siracusa fu neutralizzata.
   Il generale Rossi ordinò un contrattacco per riconquistare il ponte Grande sull’Anapo: un forte nucleo, appoggiato da 4 carri, da mortai e da 6 mitragliatrici, ingaggiò un aspro combattimento, protrattosi per sette ore, con ingenti perdite per gli inglesi. Questi, ormai ridotti a soli quindici uomini, gettarono le armi nel fiume e si arresero. Più tardi, però, il 2° Battaglione del Reggimento fucilieri reali scozzesi attaccò nuovamente i difensori del ponte, consolidandone definitivamente il controllo.
   Tutto questo accadde nel settore di sbarco inglese e, comunque, la resistenza italiana fu notevole. Ci furono anche episodi di sbandamento, come accaddero atti di puro eroismo che ebbero il massimo riconoscimento al valore: la Medaglia d’Oro; tra questi, un giovane ufficiale di fanteria, assegnato alla difesa di un tratto di costa in prossimità di Siracusa, il sottotenente Vincenzo Barone di Modica.
   Ardente italiano di 26 anni, consapevole del dovere da compiere in difesa di quel lembo di terra natia che gli era stata affidata; laureato in giurisprudenza, fu ammesso alla Scuola allievi ufficiali di Arezzo e nominato sottotenente nell’agosto 1941, con assegnazione al 54° Reggimento fanteria. Ricoverato all’Ospedale militare di Torino per malattia, dopo un periodo di convalescenza fu trasferito al 243° Battaglione della 206a Divisione costiera in Sicilia. Ferito in seguito a incursione aerea nemica nel gennaio 1943, fu giudicato dopo sei mesi di cure, idoneo al solo servizio sedentario. Pochi giorni prima dello sbarco anglo-americano in Sicilia volle tornare tra i suoi fanti della 4a Compagnia.
   Quando gli inglesi stabilirono il contatto con la sua posizione, ne contrastò efficacemente l’attacco animando la truppa con gli ordini e con l’azione. Esponendosi al fuoco nemico organizzò quello dei suoi uomini, riuscendo a respingere i reiterati attacchi, nonostante le perdite andassero man mano assottigliando il suo plotone dotato di poche armi automatiche. Quando scarseggiarono le munizioni, contrassaltò con le bombe a mano e alla baionetta. Rimasto solo con alcuni feriti gravemente, rifiutò ripetutamente l’offerta di resa avanzatagli dal nemico – ammirato del suo valore – e continuò il lancio di granate, alternandolo a raffiche del suo mitragliatore. Gli avversari costatato il prezzo che stessero pagando in vite umane – seppur mal volentieri, decisero di finirlo: una raffica al volto lo fulminò.
   Fu sepolto con gli onori militari resi dagli inglesi stessi.
   La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare concessagli, così recita:
Volontario di guerra, già menomato fisicamente per ferita derivante da incursione aerea nemica, rifiutando il lavoro di ufficio cui era destinato, tornava tra i suoi fanti a guardia delle frontiere marittime della Patria. Durante uno sbarco nemico, sebbene attaccato da forze preponderanti per numero e per mezzi, rimaneva al suo posto fedele alla consegna ricevuta, incitando i suoi pochi uomini alla resistenza e infliggendo gravi perdite all’avversario. Caduti intorno a lui quasi tutti i suoi valorosi, finite le munizioni dell’unica sua arma automatica, cercava ancora di arrestare il nemico con il lancio di bombe a mano, finché, colpito a morte da una raffica di mitragliatrice al viso, immolava la sua eroica giovinezza.
Spiaggia di Marzamemi Pachino, 10 luglio 1943






© 2013
Per citare questo articolo
G. La Rosa, Vincenzo Barone: le libertà di oggi, i sacrificidi ieri. Per non dimenticare, in "Il tempo la storia. L'anno zero dell'Italia giovane e creAttiva", R. Bonuglia (a cura di), Roma, Edizioni Il Tempo la Storia, 2013.