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27 ottobre 2013

Don Sturzo e don Puglisi: due sensibilità che sapevano ascoltare


Secondo uno dei concetti enunciati da Aristotele riguardanti l'anima, la sensibilità, carattere specifico di ogni uomo, se rapportata in termini più ampi tende a coinvolgere la collettività, e ancora il popolo; fu sicuramente questo un sentimento molto spiccato nei due personaggi siciliani Luigi Sturzo e Giuseppe Puglisi che a maggior ragione li rese sempre disponibili nei confronti dei più bisognosi, rafforzandone la strada per intraprendere il sacerdozio.
    http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Don_Luigi_Sturzo.jpg Per Luigi Sturzo, uomo del XIX secolo originario di Caltagirone, questa sensibilità si acuì anche a seguito delle letture di Mario Rapisardi, intellettuale e poeta catanese che pubblicò, tra l’altro, nel 1883 i versi sociali Giustizia, i quali trovarono vasti consensi nel Canto dei mietitori al punto che nel 1924 furono proibiti dalla dittatura fascista.
    Ordinato sacerdote nel 1894 – nel periodo di Leone XIII, don Sturzo cercò di coltivare il suo interesse verso gli studi sociologici, con cui, inesorabilmente, ebbe modo di confrontarsi nelle repressioni dei Fasci siciliani, avvenute nel gennaio dello stesso anno. Il papa, infatti, già nel maggio 1891, aveva ammonito i proprietari, con l'enciclica sulla questione operaia Rerum novarum, a non abusare dell'uomo come di “cosa a scopo di guadagno”. Il Rapisardi ne denunciò con coraggio la politica del governo Crispi, (Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause del 1894 e nel Dialogo Leone del 1895), resasi criminale col decreto di stato d'assedio, che gli permise di sciogliere le organizzazioni dei “Fasci” con le armi, che furono puntate contro la povera gente: contadini, operai e minatori delle zolfatare dell'ennese, categoria molto sfruttata e sottoposta a condizioni lavorative durissime.
    Questi fatti lo spinsero ad avvicinarsi al movimento democratico cristiano, col coetaneo don Romolo Murri, per seguire ancora più da vicino le lotte sociali, fondando comitati cattolici e, soprattutto, cooperative di credito e di lavoro in Sicilia. Per dare eco alle attività svolte a favore dei più bisognosi, inoltre, don Sturzo fondò nel 1897 il giornale "La Croce di Costantino" a Caltagirone, considerato uno dei pilastri storici del movimento. Giornale che ebbe le sue vicissitudini, legate al forte anticlericalismo dilagante in quell'epoca, fino a giungere, col governo Starabba marchese di Rudinì, al sequestro del quotidiano per attività sovversiva.
    Dopo i fatti di Milano del 1898, in cui il generale Bava Beccaris diede l'ordine di caricare le barricate innalzate dal popolo, che manifestò per la crisi economica in cui stava vivendo: disoccupazione, tasse e rincaro del prezzo del pane, don Sturzo espresse aspramente, sul suo quotidiano, la disapprovazione per le sanguinose repressioni manu militari, invitando la monarchia a evitare la forza per sfidare il popolo.
    Un percorso che lo portò all'attività politica, e agli inizi del nuovo secolo fu nominato consigliere alla Provincia di Catania, ma soprattutto, pro-sindaco nella sua Caltagirone, carica che mantenne per tutto il periodo della Grande guerra. In quest’occasione applicò i suoi principi rivolti alle autonomie locali, diretti, cioè, a indicare la vitalità dell'attività del Comune, come “ente naturale anteriore allo Stato”. Un «pretucolo di provincia» fu apostrofato, perché cercò di valorizzare il ruolo degli enti locali, contrapponendosi allo statalismo e alla mancanza di morale intorno a esso – ponendo al centro l’uomo libero e forte (frasi iniziali del suo appello al Paese del 18 gennaio 1919, all’atto della fondazione del Partito popolare) e ancora, esercitò la carica di vice presidente dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia.
    Ecco che in questa sua carica di pro-sindaco ebbe la sensibilità di moralizzare la collettività, sfidandone le minacce della mafia locale, che in quegli anni attraverso i campieri tenne a bada il bracciantato sotto le minacce delle mancate assunzioni “a giornata”; opportunità vitali per la povera gente, considerando le terre di grandi latifondi padronali. Un problema che aveva già trattato, al punto che ne esternò alcune vicende con l’esemplare rappresentazione del dramma La mafia.
    Opera giovanile, scritta nel 1900, il dramma fu inscenato nel teatrino "Silvio Pellico" di Caltagirone, il 25 febbraio. Fu scritto sotto la “impronta” del processo svolto nei confronti dell’onorevole Raffaele Palizzolo, che fu riconosciuto capo della mafia delle campagne del palermitano, ritenuto colpevole dell’assassinio dell’ex direttore generale del Banco di Sicilia, già sindaco di Palermo, marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, avvenuto il 1° Febbraio 1893, nel treno che da Trabìa conduceva a Palermo. Come da copione, fu chiamata dramma perché la rappresentazione andava a finire male, coerentemente a quel che don Sturzo sapeva e vedeva.
    Certo a Caltagirone la mafia sconfinava sporadicamente, però, don Sturzo aveva avuto un’idea molto chiara sul tipo di organizzazione e di averla sentita come problema talmente vasto, urgente e penoso da confrontarsi sulla scena del suo teatro. Ebbe a dire: «La mafia diventerà più crudele e disumana. Dalla Sicilia risalirà l'intera Penisola per forse portarsi anche al di là delle Alpi».
    A qualche anno di distanza, un altro sacerdote, nei confronti della mafia, andò oltre la mera “rappresentazione teatrale”; una figura dallo spessore diverso da quello che fu l’impegno nazionale di don Sturzo, ma che lasciò sicuramente la sua impronta nella collettività che lo conobbe. Ne ricorre il 20° anniversario il 15 settembre, data in cui, al compimento del suo 56° compleanno, fu ucciso per mano di Salvatore Grigoli, assassino professionista della mafia.http://sk.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Puglisi#/media/File:Tomb_of_Giuseppe_Puglisi_-_Cathedral_of_Palermo_-_Italy_2015.JPG
    Ribattezzato dai ragazzi della sua parrocchia “Treppì”, padre Pino Puglisi appunto, inviato nel 1990 dal cardinale Pappalardo nella chiesa di San Gaetano a Brancaccio, un quartiere “difficile” di Palermo, sin da subito lasciò la sua traccia, dettata dalla sensibilità nei confronti dei suoi concittadini abbandonati al margine della collettività.
    Maturò la scelta verso l'ordinazione a sacerdote nel 1960 – nel periodo di Giovanni XXIII, anche per via della sua assidua frequenza dell’Azione cattolica, ma riuscì a mantenere viva anche la passione d’insegnante nel liceo classico "Vittorio Emanuele": due evidenti “necessità” di contatto con le persone, che gli permisero di affrontare le difficoltà future con un diverso equilibrio.
    Sensibilità che non mancò di dimostrare alle prime luci dopo il terremoto nella valle del Belice, nel gennaio 1968; cercando di stare il più possibile vicino alla gente superstite, si premunì per organizzare altari di fortuna per celebrare la messa nelle tendopoli organizzate dall'esercito, con l'ausilio del corpo militare della Croce rossa italiana.
    Abituato a stare tra i ragazzi per via dell'insegnamento, allora era per gli studenti “don Peppino” e su cui aveva un grande influsso, cercò di confrontarsi con i giovani sessantottini, mantenendo i contatti tra i contestatori e la presidenza del liceo, evidenziando grande equilibrio, attraverso ore e ore di dialogo – basato soprattutto sull'ascolto.
    Ebbe modo, comunque, di esercitare il proprio sacerdozio tra gli emarginati della società: carcerati, prostitute e negli ambienti travolti da faide di mafia, cercando di “lavorare” prima di tutto con i più piccoli. Lo stesso appena dopo il suo insediamento nella chiesa di San Gaetano, abituato com’era alla parola e all’ascolto, cercò contatti e si adoperò per una maggiore partecipazione della gente del quartiere, coinvolta in molteplici difficoltà economiche, sanitarie, culturali. Arrivò persino a fare un censimento della popolazione del quartiere Brancaccio – cosa cui l’amministrazione comunale non riuscì, per capire quanti fossero realmente i suoi parrocchiani; non tutti gli aprirono la porta, ma la maggior parte che lo fece, riuscì a “mettere a nudo” le proprie disperazioni quotidiane. Famiglie ridotte a vivere in locali ristretti, se non in un’unica stanza, in una parte della città con mancanza dei servizi urbani indispensabili.
Don Puglisi era entrato in:
Un quartiere degradato, dove non c’è niente, dove ti abituano a subire il fascino degli uomini di rispetto fin da quando sei un ragazzino, perché se ti rubano la macchina, “cosa nostra” te la fa ritrovare il giorno dopo,
come descriveva il suo assassino; contrapponeva il sacerdote indicando il quartiere Brancaccio come:
La borgata più dimenticata della città. Non ha una scuola media, niente asilo nido e nemmeno un consultorio o centro sociale comunale, ha solo una scuola elementare e una materna,
aveva detto pochi giorni prima di morire alla cronista Delia Parrinello (Famiglia Cristiana n. 36/1999).
    Quell’uomo mite, che era capace di vivere secondo i dogmi della povertà, riusciva a diventare irascibile quando costretto a lottare contro “i muri di gomma” della politica; una politica che non gli costruì la tanto sperata scuola media, necessaria per togliere i ragazzi dalla strada, strappandoli alla mafia.
    Tentava di riseminare le “piante” dei valori, della buona volontà, cercando di estirpare, invece, quelle dell’odio, della violenza e dell’ozio, di cui il quartiere era invaso. Non chiedeva molto don Puglisi, voleva ridare dignità a quella gente, ma soprattutto speranze, necessarie ad affrontare diversamente le difficoltà della vita.
    Lui, a Brancaccio, c'era nato: «Dove si fa prima a dire le cose che ci sono, perché manca quasi tutto», quindi, sapeva cosa chiedere alla sua gente, e grazie alla sua sensibilità, riuscì a riempire l'oratorio di ragazzi. Una collettività di sedicimila persone, di cui molte mamme dedite alle faccende casalinghe, oltre a pensionati e disoccupati; solo poco oltre il 10% aveva un lavoro. Una società complessa, con stili di vita legati a vicende d’onore e in cui faccende di denaro e consegne di droga erano l’unica base su cui far poggiare le fondamenta della quotidianità.
    La mano armata di Salvatore Grigoli lo tolse ai suoi ragazzi e agli uomini di buona volontà.
© 2013
Per citare questo articolo
G. La Rosa, Don Sturzo e don Puglisi: due sensibilità che sapevano ascoltare, in "Il tempo la storia. L'anno zero dell'Italia giovane e creAttiva", R. Bonuglia (a cura di), Roma, Edizioni Il Tempo la Storia, 2013.