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8 settembre 2008

Anche Dostoevskij scrisse dell’Unità d’Italia

 
Seguendo un percorso che vuole offrire una “rilettura” del periodo storico riguardante il Regno delle Due Sicilie e l’Unità d’Italia, e soprattutto per portare alla luce la voce e i pensieri “dei vinti”, che non trovano spesso ristoro nei testi riguardanti la storiografia nazionale in uso nelle scuole, cito, per un’utile riflessione, delle parole di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
https://farm4.staticflickr.com/3182/2747296438_dd955ab0b6_b.jpg   Nato a Mosca nel 1821, scrittore a tempo pieno dall’età di 23 anni, che come riportano le biografie: «Sarà attratto dall'idea di una società pacifica e dominata dall'amore; egli non è, né mai sarà, un rivoluzionario (prende anzi le distanze dalle posizioni più estreme di alcuni membri del gruppo), ma sogna provvedimenti che possano abolire la servitù della gleba, la censura, la disuguaglianza, l'oppressione, la povertà», riguardo alla nostra Patria ebbe a dire: 

Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale, capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che quest’idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita, ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del Conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del Conte di Cavour.
   Cavour morì subito dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, nel 1861; la sua creazione, ancora oggi, soffre dell’identità territoriale, come se fossimo fermi all’età dei “Comuni” e questa documentazione, portata alla luce da interessati osservatori, può trovare una giusta posizione, in occasione del particolare momento, in cui riemerge un dialogo nutrito da spirito critico e di confronto, tra “vaccai degli austriaci e cafoni”[1], utile, a mio parere, per avere una visione più obiettiva sui fatti dell’epoca, della cosiddetta “fratellanza” di metà Ottocento, che già da quel periodo vuole la formazione del popolo Italiano.
   Ritengo altresì, che si possa affermare che la storica frase attribuita a Massimo Taparelli, marchese d'Azeglio: «Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani!», abbia ancora la sua contemporaneità.




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[1] Così erano apostrofati i settentrionali e meridionali. Quelli dello Stato della Chiesa erano i papalini.

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Anche Dostoevskij scrisse dell’Unità d’Italia di G. La Rosa 
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