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13 febbraio 2022

I Fasci siciliani e il castigo crispino


«Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un'organizzazione diventa invincibile»

Bernardino Verro

«Onorevoli colleghi, io vi ho intrattenuto nei passati giorni sulla questione bancaria, ed ora vi debbo intrattenere brevemente sui fatti dolorosissimi di Caltavuturo. Sebbene non appaia a prima vista, pure tra le due questioni c’è un intimo legame, perché, mentre nella prima si scorge la lotta sociale che si svolge in alto, tra le classi dirigenti per ottenere il massimo di godimento possibile, viceversa, nei fatti di Caltavuturo si scorge la lotta dei poveri per ottenere il minimo della sussistenza»

Napoleone Colajanni

«Amo il popolo, sono lavoratore anch'io, perché non ho vissuto e non vivo che del mio lavoro; ma mentre sono favorevole a tutte le legittime associazioni, che hanno per scopo il miglioramento delle classi operaie, non posso ammettere alcune di queste associazioni che abbiano di mira lo sfascio dello stato attuale»

Francesco Crispi

«Io ho un dovere che mi si impone come legge inesorabile, ed è quello di non permettere che si costituiscano nel regno d’Italia e segnatamente in Sicilia associazioni le quali, in qualunque modo, tendano a provocare la lotta di classe. La lotta di classe è vietata dal codice penale»

Antonio Starabba, marchese di Rudinì

Umberto I, dopo il primo grande scandalo politico in Italia – l’affaire “Banca Romana” – scoperto dal deputato Napoleone Colajanni, in cui, in pratica, per favorire le azioni riguardanti crediti speculativi edilizi di determinati imprenditori e proprietari terrieri furono stampate nuove banconote, da parte del suddetto istituto, con i numeri seriali di quelle che dovevano essere ritirate, ma che non lo furono. Di fatto, circolavano banconote doppie con lo stesso numero seriale, le ultime, pertanto, false e senza la rispettiva copertura con il controvalore in oro. Corruzione, concussione, ricatti e confessioni coinvolsero molti personaggi noti, giornalisti, banchieri, parlamentari tra cui Crispi, imprenditori, costruttori. Oltre allo scandalo bancario, ci fu lo scandalo giudiziario, causato dal fatto che nessuno fu condotto nelle patrie galere, per via degli altisonanti nomi coinvolti.

   Il re accettò le dimissioni di Giovani Giolitti e conferì l’incarico di formare un nuovo governo al garibaldino siciliano di sinistra Francesco Crispi.
   Nasce il «Crispi III», è il 15 dicembre 1893.
   Cercando di conoscere meglio la figura di Francesco Crispi, un personaggio storico, che, per i più, è considerato uno degli organizzatori della spedizione dei Mille in Sicilia e un rappresentante siciliano nel governo, al punto di divenirne il presidente del Consiglio, potremo considerare che andando a scavare non si può dire che fosse tutto...
   La Sicilia di fine Ottocento, per alcuni versi non aveva avuto lo sviluppo industriale che, invece, al settentrione si rafforzava maggiormente. I rapporti locali erano sempre gestiti dai tenutari della zona e la maggior parte della popolazione proletaria subiva la povertà e la miseria.
   Francesco Renda, nel descrivere questo periodo in I Fasci siciliani. 1892-94 ha scritto, tra l'altro, che l'economia isolana era cresciuta toccando «il livello più alto di avvicinamento» a quella del nord: era cambiato il rapporto arretratezza/sviluppo, erano più forti i contrasti tra i settori stagnanti e quelli in ascesa. Poi qualcosa non andrà per il verso giusto e le realtà più progredite saranno mortificate.
   Agli inizi degli anni Novanta nell’intera isola si erano formate delle società di lavoratori che contrastavano lo sfruttamento dei lavoratori e, soprattutto, dei carusi nelle miniere di zolfo dell’ennese.
   L’attenzione sulla Sicilia richiamata da quel fatto (strage di Catavoturo), che ebbe ampia risonanza anche in sede parlamentare, fu poi tenuta desta dalle notizie che continuarono ad arrivare di scioperi e manifestazioni popolari, di interventi repressivi e arresti, ma anche di risultati positivi: aumenti di salariali e miglioramenti dei patti agrari.
   In questo contesto di fine del XIX secolo, adiamo ad approfondire la figura di Francesco: figlio della ricca vedova Giuseppa Genova e di Tommaso Crispi commerciante di sementi, nasce a Ribera (ancora oggi terra di arance) il 4 ottobre 1818, avrà ben otto tra fratelli e sorelle. I Crispi sono originari di Palazzo Adriano, un paesino in provincia di Palermo, abitato per la maggior parte da gente di origine albanese. Arbëreshë originari di un’area ben individuata tra il sud dell’Albania e il nord della Grecia, che si spostarono in Italia a seguito dell’invasione ottomana, delle terre natie.
  Una famiglia molto religiosa praticante il rito cattolico greco-bizantino, influenzata dagli insegnamenti del nonno Francesco, sacerdote e, soprattutto, del cugino Giuseppe vescovo bizantino degli albanesi in Sicilia e rettore del seminario greco-albanese, in Palermo.
   Francesco è battezzato, pertanto, secondo il rito della Chiesa orientale; inizia il corso degli studi nel 1824 alla scuola elementare di Villafranca Sicula, dove va ad abitare presso una famiglia. Nel 1829 prosegue gli studi nel seminario di Palermo, presso il cugino.
   Terminati gli studi, nel 1835 s’iscrive alla Facoltà di giurisprudenza dell’università di Palermo e si laurea nel 1843. Va a Napoli per cercare di fare l’avvocato, ma il suo interesse per la politica lo porta nel 1848 a prendere parte ai moti rivoluzionari di Palermo, inoltre, l’esserne stato uno dei principali organizzatori, gli permette di entrare a far parte del Parlamento siciliano. Nel 1849 a causa della restaurazione borbonica nell’isola, si deve allontanare, preferendo andare a trovare i suoi amici in Piemonte. Nello stesso anno a Marsiglia conosce Rosalie Montmasson una ragazza molto umile di cui s’innamora, anche a seguito di una precedente frequentazione avvenuta a Torino. Quattro anni dopo lascia anche il Piemonte per rifugiarsi a Malta. Dall’isola mediterranea deve allontanarsi e si trova a Londra con Giuseppe Mazzini nel 1853, dopo che è stato espulso da Parigi e confermando, in tal senso, il suo schieramento con il Partito repubblicano e l’ampia collaborazione al suo massimo esponente. 
   Nel 1860 prende parte alla Spedizione, insieme a Garibaldi e ai suoi uomini, anzi ne è il massimo promotore.
   Come vedremo, però, compirà una serie di voltafaccia nei confronti della politica, come pure nella vita di famiglia e, ancora peggio, nei confronti della sua gente di Sicilia, che faranno comprendere maggiormente il tipo di personaggio, il quale ispirato da un alto concetto di sé e dell'Italia, rimase, comunque, racchiuso in un mondo ideale ormai tramontato di fronte al sorgere di nuove forze politiche e sociali. Crispi ministro, in realtà, non s'innalzò sopra la contemporanea vita politica italiana, piuttosto, esaurì le sue forze in vani conati di energia e di grandezza, anticipando taluni motivi ripresi poi dal nazionalismo e dal fascismo.
   Il primo voltafaccia riguardò il fatto che essendosi avvicinato maggiormente al generale Garibaldi e ai repubblicani in genere, passò a favore dei monarchici, esprimendo quest’affermazione il 7 maggio 1864 in Parlamento: «La monarchia è quella che ci unisce, la repubblica ci dividerebbe», presagio che, peraltro, non trovò riscontro nella storia, poiché fu proprio la monarchia nel secolo successivo a dividere il popolo italiano, dal 28 ottobre 1922 al 25 luglio 1945, confermando la repubblica nel plebiscito del 2 giugno 1946.
   Un concetto che Crispi conferma nel discorso alla Camera del 28 febbraio 1894, in questi termini:
«Lo dico oggi, come lo dissi nel 1864: non c’è per noi, che la monarchia, la quale significa unità ed assicura l’avvenire della patria».
   Si comportò da bugiardo anche nella sua vita familiare. 
   Sarà accusato di bigamia dall’opposizione, per via dei due matrimoni contratti a Malta e in Italia, con due donne di diversa estrazione sociale. Nei confronti di Rosalie Montmasson si comporterà in maniera, possiamo dire “non difendibile”, come vedremo.
   Il primo matrimonio, non autorizzato dalla sua famiglia, ci fu nel 1837, neanche ventenne, con la palermitana Rosina D’Angelo, da cui nacque Giuseppa, occasione per riappacificarsi con la famiglia. Nacque anche Tommaso ma Rosina morirà nel 1839 e anche il figlio morì e alla fine dello stesso anno non ce la fece neanche la figlioletta!
   Il secondo matrimonio sarà con Rosalie Montmasson, una ragazza della Savoia, di umili origini ma dal carattere molto tenace. Durante il fidanzamento lei lavorava per mantenere entrambi. Con l’idea di rivoluzione nel sangue si appassiona al Risorgimento; infatti, seguirà Francesco mandato al confino a Malta ed è qui che saranno celebrate le nozze. Una cerimonia basata su una liberatoria fatta firmare al padre di Rosalie, che le permetteva di sposare chi volesse, senza la sua autorizzazione.
   Dopo la spedizione dei Mille, cui partecipò anche Rosalie - unica donna in campo - Crispi assurgerà ai fasti della vita mondana, mentre Rosalie non ne fu considerata all’altezza. Di fatto, Francesco ebbe delle relazioni esterne, da cui nacquero due figli; il primo fu riconosciuto da Rosalie, ma il secondo no. Disaccordi che portarono la coppia a dei forti dissidi, a causa dello stile di vita che sostenne Francesco, frequentando i vari salotti della Roma papalina.
   Nel 1878 celebrerà il terzo matrimonio, in modo clandestino con Filomena Barbagallo, con cui, peraltro, ebbe una figlia quattro anni prima. 
   Lo scandalo fu presto propagandato dalle opposizioni, che urlarono ai quattro venti la bigamia del ministro dell’Interno. Attaccato da vari giornalisti, non sopportava questa ingerenza nel suo stile di vita, ormai assurto alle vette della società; arrivando, persino, a dichiarare il falso, in altre parole che fosse libero da precedenti vincoli matrimoniali. Uno scandalo che fece il giro della penisola e lo portò alle dimissioni.
   Il terzo voltafaccia lo fece nei confronti della sua gente, e, infatti, nonostante le sue origini agrigentine decise di prendersi ad interim il ministero dell’Interno al momento della formazione del Crispi III, che aveva condotto anche in precedenza, proponendo, sin da subito, una dura repressione per le rivolte dei Fasci siciliani, che, purtroppo, il Parlamento appoggiò con 342 voti a favore, mentre i voti contrari furono 45 e 22 gli astenuti. La scelta repressiva del governo trasformista di Crispi, di fatto, lo rese più rafforzato.
   La storia volle che in questo specifico momento fosse un siciliano a capo del Governo e fare ciò che il piemontese Giolitti non ebbe l'intenzione d’intraprendere, cioè la repressione dei Fasci dei Lavoratori Siciliani: un movimento popolare nato su basi cooperativo-mutualistiche, che portò avanti un pensiero politico democratico-socialista e che fu, peraltro, il primo esempio di movimento sindacale in grado di portare avanti le prime trattative con i proprietari terrieri e industriali.
   Saranno delle prove false a far scattare, nonostante tutto, lo stato di assedio dichiarato il 3 gennaio 1894, ma che era stato già deciso il 23 dicembre proprio dal siciliano Crispi, contro un movimento che pose alla base la necessità di revisione dei patti agrari e del lavoro disumano nelle miniere di zolfo. Egli dichiarerà, in una discussione alla Camera dei deputati nella tornata del 28 febbraio 1894, che il lasso di tempo tra la decisione e l’emanazione fu un continuo di notti insonni, che portò a una decisione presa non a cuor leggero:
«Non è la prima volta che mi son trovato in questi dolorosi frangenti; e non avrei mancato al dover mio, quand’anche il cuore ne avesse sofferto».
   Il concetto espresso da Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo sarà quello che volle applicare Crispi per giustificare lo stato d’assedio, da far eseguire al generale Roberto Morra di Lavriano e della Montà:
«Il principe don Fabrizio, infatti, sostenne che la sicilianità si adattò sempre al cambiamento in tutte le dominazioni susseguitesi in Sicilia, ma, di fatto, non mutando mai: orgogliosi delle proprie radici e, anche, incapaci di cambiare. La nuova unità d’Italia fu vista come l’ennesimo cambiamento, che, in fin dei conti non portò nessun rinnovamento».
   Il movimento dei Fasci, secondo Crispi, stava minando l’unità nazionale; per i proprietari terrieri, minerari e per i gabellotti si stava scardinando “l’ordine” costituito nel tempo, tale da giustificare un intervento così irruento, di censura delle libertà personali. Soprattutto, l’ultimo periodo fu considerato un irrompere delle masse nella scena pubblica. Una questione sociale che evidenzierà la crisi di una classe politica nata nel Risorgimento e che la preoccuperà, al punto che all’estero la Sicilia diventerà lo specchio della crisi del giovane Stato.
   Una situazione locale eccessivamente stressata, che la classe dirigente e politica non seppe governare,
incapace di
raggiungere l'obiettivo finale e cioè favorire i propri concittadini. 
   Problemi di economia agricola, come cattivi raccolti e ribassi dei prezzi dei prodotti agricoli, che ricaddero anche sulle esportazioni degli agrumi e dei vini, oltre alla fillossera, la malattia della vite, causata da un insetto fitofago proveniente dagli Stati Uniti, proprio alla metà dell’Ottocento. A questo si aggiunsero il calo del prezzo dello zolfo e la guerra doganale con la Francia.
   Si parlava di “questione sociale” anche perché si divulgava la problematica oltre i recinti delle campagne dei padroni dei feudi o delle miniere di zolfo della Sicilia. Della problematica se ne discuteva in ogni angolo dell’isola, nelle piazze e per i più colti sui quotidiani, per giungere fino al Parlamento, oltre che nella letteratura locale, iniziata col “verismo” di Giovanni Verga, che esprimerà nel testo Dal tuo al mio come l’egoismo e l’interesse siano il motore fondamentale delle azioni dell’uomo, per continuare con I Vicerè di Vincenzo De Roberto, Che si concentra sulle vicende della “roba” da gestire della nobile famiglia catanese degli Uzeda. Discussioni dell’epoca portavano a evidenziare i limiti della “rivoluzione borghese” in Sicilia e, soprattutto, rimanevano irrisolti atavici problemi legati alla terra, con struttura feudale e con un’economia che si doveva scontrare con un mercato che pian piano diventava mondiale. Al ridosso del 1894 anche Luigi Pirandello si avvicinò alle vicissitudini siciliane con I vecchi e i giovani, mentre sarà Napoleone Colajanni a esaurire le sue copie del testo In Sicilia. Gli avvenimenti e le cause, che dopo lo stato di assedio riuscì aggiornato col titolo Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause.
   Dopo aver espresso alcuni fondamentali concetti, sempre Crispi, nel discorso tenuto nella seduta alla Camera del 28 febbraio 1894:
«La provincia di Trapani è una delle più agiate. Se percorrete quella Provincia, voi non troverete un mendico per le strade. Tenendo poi da quella Provincia verso Palermo, troverete lo stesso benessere. Partinico, Monreale, Parco, Misilmeri, Belmonte, Comuni dove scoppiarono i moti, hanno sufficiente agiatezza, e, quello che è più, sono Comuni dove la proprietà è molto divisa. In quei Comuni non ci sono latifondi, o almeno sono molto lontani. Ma donde vennero dunque questi moti, e chi li provocò? Non possiamo nasconderlo, e nessuno lo potrà nascondere: furono essi l'effetto di una cospirazione continua, insistente, e talvolta anche violenta, che ci avrebbe portato a lutti maggiori, se il Governo non fosse arrivato a tempo ad impedirla».
   Per giustificare lo stato d’assedio e i conseguenti eccidi di un centinaio di contadini perpetrati dal generale Morra, le principali prove tenute in considerazione dal presidente del Consiglio furono due: il cosiddetto “Trattato internazionale di Bisacquino”, ipoteticamente sottoscritto dall’onorevole De Felice Giuffrida in rappresentanza dei Fasci siciliani e da emissari del Vaticano, da rappresentanti del governo francese e, persino, dello zar di Russia, con lo scopo di staccare la Sicilia dal regno sabaudo per porla sotto la protezione di Francia e Russia. 
   Emerse molto facilmente l’infondatezza di questo piano, poiché fu inventato di sana pianta dall’ispettore napoletano Sessi, delegato di pubblica sicurezza a Bisacquino, in provincia di Palermo e da qui il nome; sulla vicenda vi furono pure dei passaggi nel Parlamento dell’epoca, con non poco imbarazzo per lo stesso Crispi.
   Un’altra prova indicata a carico dei Fasci siciliani, tale da decretare lo stato d’assedio militare, fu un “proclama insurrezionale”, sequestrato a un pastaio di Petralia Soprana, col quale s’invitavano a insorgere «gli operai, figli dei Vespri». Questa prova fu considerata ancora più assurda, poiché ebbe origine dal risentimento di un vicecancelliere della pretura di Petralia, follemente innamorato della moglie del pastaio, ma da questa ripetutamente rifiutato. Il vicecancelliere non potendo subire una tale onta, ordì una vendetta e scrisse due lettere anonime: una all’ispettore delegato di pubblica sicurezza, l’altra al brigadiere dei reali carabinieri, denunziando loro l’odiato marito, come un anarchico che ebbe ricevuto del denaro e della dinamite per fomentare la rivoluzione; a supporto della sua tesi rivelò, inoltre, che il pastaio ricevette, a mezzo posta, un manifesto sovversivo. Il vicecancelliere dichiarò che scrisse il manifesto e lo recapitò all’indirizzo del pastaio. Quest’ultimo, vittima inconsapevole di tale raggiro fu tratto in arresto sulla base di imputazioni gravissime. La moglie in pena per l’accaduto, decise di denunziare il vicecancelliere, che interrogato, confessò il misfatto, adducendo la scusante di essersi innamorato perdutamente per la donna.
   Anche Benedetto Croce, che considerava Crispi l’uomo giusto, capace di agire con forza sulla base degli ordini costituiti, ne criticava in Storia d’Italia dal 1871 al 1915 i suoi falsi e ridicoli documenti, in cui voleva convincere «che i moti siciliani fossero né più né meno che una cospirazione della Francia e della Russia per togliere la Sicilia all’Italia».
   Ebbene, Francesco Crispi offuscato dai fasti della carica ricoperta ha, forse, dimenticato la dura vita quotidiana dei braccianti, dei contadini, dei mezzadri, dei carusi, degli zolfatari e degli operai siciliani, costretti a ribellarsi contro le solite angherie dei padroni, che hanno obbligato tutti, per anni, al lavoro dall’alba al tramonto, dimenticando sempre che la terra è bassa e bisogna stare piegati per lavorarla. 
   A difendere questi ragazzini, queste donne e questi uomini dai padroni e dalla mafia locale, ci dovettero pensare altri uomini siciliani, ma di cultura, che colsero l’estremo senso di disagio manifestato da questa povera gente. Non estranei, ma concittadini.
   Contrasti interni tra i socialisti portarono a non comprendere quanto invece fecero Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Antonio Labriola che lo riporterà in I Fasci siciliani, che intesero i tumulti come una espressione spontanea di lotta di classe, la più grande di quel periodo storico.
   Viene spontaneo chiedersi, cosa fosse potuto succedere se, d'altro canto, il movimento dei "Fasci dei lavoratori" fosse stato compreso e supportato da Francesco Crispi e, soprattutto, che tipo di società avesse potuto costruire l'Italia unita? 
   Oggi, forse, ne avremmo goduto gli sviluppi... 



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I Fasci siciliani e il castigo crispino di G. La Rosa
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