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9 marzo 2020

La pestilenza nel XIV secolo

Tra le cause del declino economico e sociale del XIV secolo, la pestilenza, esplosa dopo una grande epidemia e la cui diffusione aveva interessato diverse aree geografiche, incise notevolmente nell’Italia dell’epoca.
   Da sempre le epidemie di peste umana erano precedute da malattie molto diffuse trasmesse dai topi: quando i ratti morivano, attraverso le pulci, il batterio responsabile di questa malattia, si diffondeva contagiando prima gli animali e poi l’uomo.
   La diffusione della peste era favorita anche dall'accresciuta mobilità delle persone e delle merci
connesse e a sua volta, alla progressiva espansione dei traffici. I ratti, ad esempio, entrando nelle stive delle navi erano involontariamente trasportati in altri paesi, diffondendo così il bacillo. In Italia particolarmente cruenta fu la peste del 1348 (di ciò se ne può trovare un’importante testimonianza anche nel Decameron di Boccaccio). Un’altra tra le più importanti cause della diffusione della peste, era la sottoalimentazione legata alle varie carestie: la dieta dell’epoca, già in larga parte ipocalorica e ipoproteica, diventava nei periodi di crisi ancor più povera di calorie e fortemente squilibrata. I poveri si vedevano sempre stretti, più dei ricchi, nella forbice “consumi/risorse”, non potendo contrastare la malattia con una buona nutrizione. In Italia, inoltre, il feudalesimo si rivelò un ostacolo all'economia contadina e i flussi migratori favorirono situazioni di sovrappopolamento che alimentarono lo scoppio dell’epidemia; questa inizialmente colpì senza fare grandi differenze fra ricchi e poveri (anche se successivamente fu più facile per i primi tentare di fuggire verso zone non appestate).
   Fra le manifestazioni di panico e fanatismo provocate dalla peste, quella dei flagellanti fu una delle più impressionanti e delle meno comprensibili per la mentalità moderna. In Europa il fenomeno si manifestò maggiormente in Germania: turbe di penitenti composte di centinaia di uomini [le donne erano rigorosamente escluse] vagarono tra il 1348 e il 1349 da una città all’altra e una volta raggiunta la loro tappa, si flagellavano pubblicamente con fruste munite di punte metalliche. Grandi folle venivano ad assistere a quest'autopunizione, che aveva lo scopo di “allontanare dal mondo l'ira divina”; per 33 giorni e mezzo [quanti tradizionalmente si pensava fossero stati gli anni di Gesù] i flagellanti ripetevano il loro rituale nei luoghi del loro itinerario. Pur muovendo da situazioni diverse, i movimenti di flagellanti ebbero un vasto consenso popolare, con una spiccata tendenza dei penitenti ad arrogarsi poteri ecclesiastici, impartendo “l'assoluzione dei peccati ai partecipanti” (in più i flagellanti del 1348-49 ebbero una parte attiva negli atti di violenza sugli ebrei). Processioni e riti di eccezionale intensità erano dedicati alla protezione di Dio e dei Santi patroni della città, mentre i monasteri, collocati strategicamente ai margini del centro abitato, svolgevano attivamente la loro funzione di cinta protettiva del mondo cittadino. La società medievale era profondamente superstiziosa, al punto che alcuni tra i più celebri medici dell'epoca attribuivano un gran potere protettivo a determinati amuleti; all’epoca, ad esempio, si era convinti che: «Un mezzo sicuro per evitare la peste, consisteva nell'indossare una cintura di pelle di leone con una borchia d'oro puro sulla quale fosse incisa l'effige dell'animale feroce».
   La scienza medica di allora non fu in grado di combattere “il morbo” e ciò fu causa di umiliazione per i medici stessi: essi, infatti, furono incapaci di dare aiuto ai malati. Alcuni cercarono di trovare la maniera per prevenirla: il primo e più sicuro rimedio era di fuggire dal luogo in cui infestava la pestilenza, recandosi in un luogo dove l'aria “fosse più sana”. A chi rimaneva in città (soprattutto preti, medici e notai) era consigliato prima di entrare in camera del malato, di aprire porte e finestre in modo da far cambiare l'aria; inoltre, era loro consigliato di lavarsi le mani, il naso, la faccia e la bocca con aceto e acqua rosata, tenendo in bocca due granelli di garofani; non bisognava avvicinarsi all'ammalato per evitare il contagio. Furono poi introdotte delle pillole contro la pestilenza: queste dovevano proteggere l'uomo da febbri e da malattie di cuore; erano prese prima e dopo i pasti, ma si consigliava di ingerirle al mattino appena svegli e alla sera prima di andare a letto.
   Ogni famiglia attuava atteggiamenti individuali per debellare la pestilenza. Alcuni ritenevano che il vivere moderatamente guardandosi da ogni eccesso dovesse servire a resistere alla peste; molti vivevano separati da ogni altro nucleo richiudendosi nelle case, circondandosi di ogni lussuria e i ricchi di delicatissimi cibi e ottimi vini, senza permettere che qualcuno parlasse loro o senza voler sentire alcuna notizia dall'esterno di morte o di malati. Altri affermavano che il bere assai e il godere della vita, soddisfacendo ogni desiderio potesse essere medicina certa contro il male. Altri ancora, cercavano di comportarsi in maniera moderata senza quindi cadere nelle efferatezze della vita: andavano in giro portando nelle mani dei fiori, delle erbe odoranti oppure diversi generi di spezie, ponendosele al naso e pensando che fosse buona cosa per il cervello, poiché nell'aria era presente un odore irrespirabile di cadaveri. Altri invece, non trovando rimedio per sfuggire alla pestilenza, decisero di scappare e di abbandonare la propria città e le proprie case.
   Si moriva quasi subito, si gonfiavano le ascelle, l'inguine, e si cadeva morti. Il padre abbandonava il figlio, la moglie il marito; tutti fuggivano e così ci si abbandonava l'uno con l'altro, poiché questo morbo si trasferiva con l'alito. Chi moriva era seppellito se aveva molto denaro o se aveva delle conoscenze molto importanti; i meno fortunati erano sepolti davanti casa, in fosse, senza la benedizione del sacerdote, né il suono delle campane. In molti luoghi si facevano grandi buche a causa della moltitudine di morti.
   I consigli comunali cercarono di stabilire delle regole per evitare la diffusione del contagio: nessun cittadino o contadino di qualunque condizione, stato o autorità, poteva recarsi nelle città e, per chi infrangeva questa regola, c'era una multa. Fu stabilito che nessun cittadino potesse portare o far entrare in città stoffe di lino e di lana usate, pena il sequestro e la distruzione delle stesse. Fu ordinato che i morti dovevano esser portati fuori chiusi in bauli ben chiodati, affinché nessun odore potesse uscire; i parroci erano tenuti a fare denuncia alle autorità comunali, di ogni morto prima della sepoltura. Nessuno dei parenti poteva accompagnare i defunti oltre il portone della chiesa, né potevano ritornare alla casa dove abitava il morto.
   Al fine di evitare spese inutili nessuno doveva, in caso di lutto, vestirsi con abiti nuovi, tranne le mogli dei defunti. Furono nominati dei funzionari che avevano il compito di: sorvegliare i mercati; accertare la provenienza di merci e mercanti; impedire la rivendita di indumenti e suppellettili appartenenti a persone morte a causa della peste. Si colpì lo sciacallaggio nelle case abbandonate e, tra i controllori della peste, si reclutavano anche dei medici a specifico incarico di sorveglianza sanitaria civile. Si barricarono porte e finestre delle case infette, lasciandovi reclusi gli appestati e i loro parenti.
   Comparì anche un elenco dei malati perché ciascun medico notificasse i nomi dei pazienti che aveva in cura; si chiusero i porti alle navi provenienti da località infette. In Sicilia, ad esempio, Ragusa decretò che le navi provenienti da queste località ritenute a rischio erano autorizzate all’ingresso in porto, dopo un mese di isolamento. Questo periodo fu chiamato “quarantena”, infatti, la dottrina di Ippocrate stabiliva che «il quarantesimo era l'ultimo giorno nel quale poteva manifestarsi una malattia acuta», come appunto la peste; una malattia che insorgeva dopo questo termine dunque non poteva essere considerata peste. Nel frattempo, in quest’ottica, nacque a Venezia un'altra fondamentale istituzione, il “lazzaretto”, in cui la quarantena si svolgeva in un'isola della laguna, dove era eretto il monastero agostiniano di Santa Maria di Nazareth e nel quale era convogliato il personale di assistenza proveniente dall'ospedale lagunare per i lebbrosi, dedicato a San Lazzaro.
   La peste nel XIV secolo fu allontanata previo rigorose misure di quarantena ed anche l’uso d’insetticidi per la protezione dalle pulci, tra le popolazioni delle aree colpite.


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