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12 dicembre 2012

Enrico Mattei e Adriano Olivetti, due «modelli» obsoleti?


Due personaggi di peso del Novecento industriale italiano, due origini diverse per ceto e territorio, due ideali politici a confronto. Mezzo secolo di esistenza, con una finestra rivolta alla vita quotidiana, in un periodo storico in cui il nostro Paese ha dovuto affrontare mutevoli cambiamenti sociali.
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   Industriale privato, Adriano Olivetti nato nel 1901 ‒ figlio d’arte, arriverà alla nomina di presidente della “Ing. C. Olivetti & C. Prima fabbrica nazionale macchine per scrivere” nel 1938, a trent’anni dalla fondazione.
https://farm9.staticflickr.com/8185/8130528744_840d56487d_o.jpg    Enrico Mattei nato nel 1906, inizierà la sua esperienza di industriale pubblico con l’ufficializzazione della nomina a commissario straordinario della “Azienda generale italiana petroli” del 16 giugno 1945, su proposta di Mario Ferrari Aggradi presentata il 28 aprile alla Commissione centrale per l’economia del Cln Alta-Italia, presieduta da Cesare Merzagora.
    Adriano Olivetti a Ivrea sviluppò l’attività industriale istituita dal padre, l’ingegner Camillo: industriale-inventore un uomo fatto da sé, proveniente da una famiglia benestante proprietaria terriera, che creò la sua prima fabbrica di strumenti di misurazione elettronica, non ancora trentenne. La madre Luisa Revel fu una donna educata al dovere e all’ubbidienza, molto timida.
    Brigadiere dei carabinieri in servizio alla stazione di Acqualagna, Antonio il padre di Enrico Mattei, salì alla ribalta della cronaca locale e nazionale per la cattura del brigante Giuseppe Musolino, avvenuta il 27 ottobre 1901. Un arresto fortunoso che l’Arma gli ricompensò con una medaglia al valore e la promozione al grado superiore «per meriti eccezionali». La madre Angela Galvani proveniente da una famiglia nota in paese, fu molto intraprendente, dotata di un forte pragmatismo e acuto senso degli affari, trasmessole dal padre costruttore edile, dote che tramandò al giovane Enrico.
    In un ambiente dimesso, quello di Acqualagna ‒ una comunità di pastori e contadini, fu la nonna di Mattei, Ester Marconi, a provvedere all’educazione del piccolo, a base di letture romanze come in voga all’epoca: soprattutto il libro Cuore di De Amicis. L’impatto con la scuola elementare fu morbido, in quanto nonna Ester parlò del nipotino alle maestre, che lo accolsero calorosamente, ponendo un occhio di riguardo sul piccolo. Dalla prima alla terza elementare, seppure il padre fosse stato trasferito in altre caserme, il giovane Mattei restò con la nonna seguendo con tranquillità il loro svolgimento, fino a che il maresciallo non fu trasferito per esigenze di servizio in terra d’Abruzzo, a Casalbordino.
    Qui le cose si capovolsero totalmente, ponendo la cruda realtà davanti agli occhi del giovane alunno. L’impatto, infatti, fu abbastanza duro sia perché si trattò di aver a che fare con un maestro e sia perché non fu possibile la “preparazione del terreno” da parte della nonna; il rapporto col maestro non fu idilliaco, al punto di compromettere la relazione di Mattei con la scuola. Gli impegni di servizio del padre altresì, ne impedirono una presenza più assidua in famiglia e l’ingerenza della madre ne acuì i vezzeggiamenti.
    A Vasto seguirono gli studi del giovane Mattei, in collegio ‒ per le medie, che allora si chiamarono “scuole tecniche inferiori”, succedute al termine “avviamento tecnico”. A L’Aquila lo attese l’istituto tecnico superiore, ma il Mattei pensiero fu: «La scuola ha un senso per le persone agiate» e sentendosi in una posizione sociale più mesta, lo stimolo allo studio si ridusse molto e i problemi non si fecero attendere. L’intelligenza di Mattei, purtroppo, si fece superare dal disinteresse e da un senso di ribellione, che lo portò a saltare spesso le lezioni, preferendo delle passeggiate al corso di Matelica, dove nell’autunno del 1920 si trasferì la sua famiglia.
    Nel Nord-ovest del regno, a “Villa Emma” nella collina di Monte Navale, Olivetti fu avviato a un modo diverso di affrontare la vita scolastica, che secondo le convinzioni dell’ingegner Camillo avrebbe dovuto iniziare non prima degli otto anni, per permettere ai figli di godere una più lunga infanzia a contatto con la natura. Un’impegnativa scuola elementare condensata in due anni e dopo i primi insegnamenti che furono curati della madre, vide successivamente le istruttrici delle valli valdesi.
    Gli studi proseguirono a casa, come privatista ‒ poiché il padre non ebbe gran fiducia verso la scuola pubblica, ma che inevitabilmente il giovane Olivetti dovesse conoscere per sostenere a Torino l’esame finale. Per Olivetti, che protrasse nel tempo una grafia infantile, si evidenziò una sensibilità molto acuta che lo portò ad aspirare agli studi umanistici del ginnasio e del liceo classico, ma che, invece, gli vide aprire le porte dell’istituto tecnico sezione fisico-matematica ‒ lo scientifico dei tempi nostri, come volle il padre. Rimpiangendo sempre di non aver potuto imparare il latino, fu stimolato a farsi una cultura letteraria autodidatta, abituandosi a leggere molto.
    Gli studi superiori, seguirono inizialmente a Milano, ma stavolta in una scuola pubblica e “a pensione” presso una conoscente, in modo da stimolare il giovane studente a saper affrontare i costi del vivere lontano dalla famiglia; successivamente continuò a Cuneo.
    Nel mentre, ottenuta la maturità tecnica, nel Giugno del 1918, Olivetti comunicò di volersi arruolare per combattere gli austriaci: una scelta audace, che impressionò il padre Camillo, il quale, in genere, fu il decisore delle successive tappe dei figli. Il periodo negli alpini però fu breve, poiché la Grandeguerra volse al termine e, dunque, si aprirono le porte dell’università al Politecnico di Torino, dove iniziò il primo anno di ingegneria meccanica, ma finì laureandosi in ingegneria chimica industriale nel 1924, cosa che preoccupò il padre, che la vide come un allontanamento dalla fabbrica di famiglia.
    Durante il periodo universitario, Olivetti aumentò il suo interesse verso la politica, negli anni in cui imperversò la protesta dei contadini e degli operai del Biennio rosso e, Giolitti, al suo ultimo governo, fu considerato l’emblema di una classe dirigente diffamata, al punto che gli si chiese ‒ come spesso segnalato da Salvemini ‒ di lasciare la politica nazionale, per dare largo a una nuova classe di giovani.
    Per Mattei, a Matelica, le cose furono diverse; trascorsa l’estate spensierata ad Acqualagna con l’amata nonna, al rientro, il padre decise che fosse meglio avviarlo al mondo del lavoro, poiché la scuola, secondo il pensiero del padre ‒ che lo avrebbe voluto “dottore”, non fosse per lui. Da questo momento si aprirà un nuovo mondo per Mattei che dopo i primi periodi di apprendistato, facendo il garzone in vari tipi di botteghe artigiane e dopo l’inserimento nella giusta officina, riuscirà pian piano a emergere.
    Anche Olivetti provò l’esperienza lavorativa, seppur “giocasse in casa” e in una delle tante interviste disse:
Quando avevo tredici anni, mio padre mi mandò a lavorare in un reparto di trapani, nell’estate del ‘14. Ho faticato molto a lavorare nella fabbrica. Ho faticato perché il lavoro di queste macchine non mi attraeva, non fissava la mia attenzione e la mente poteva vagare e si stancava.
   Sia Olivetti, sia Mattei al termine del periodo di manifestazioni del Biennio rosso, hanno subito l’influenza delle diverse convinzioni di famiglia che in un certo senso hanno anche influito sulla scelta del loro schieramento politico; Olivetti si avvicinò al sogno di una società socialista, mentre Mattei si avvicinerà poi a quella che scaturirà dagli incontri per la stesura del “codice di Camaldoli”.
    Del resto, l’ingegner Olivetti aveva maturato verso gli ideali democratico-sociali, che già erano aleggiati in famiglia, coltivando la figura di un “utopista” pieno di valori, che credé nel rapporto tra lavoratori e partecipazione e tra fabbrica e territorio, concentrando questi pensieri nel “Movimento comunità”. Subì l’influenza di Gobetti, con cui ne divise l’amicizia, soprattutto per avergli espresso il suo pensiero: «Grandi trasformazioni prenderanno avvio dall’industria». Nel contempo Olivetti durante il periodo universitario si avvicinò molto al giornalismo politico, anche se vide sempre di più tramontare lo spirito di rivoluzione socialista con l’arrivo dei fascisti e della “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922: un’occasione per confrontarsi con le altre riviste e quotidiani che aumentarono le tirature, in quei periodi di sommossa sociale. Si unì ai fratelli Rosselli per ostacolare l’avanzata fascista, ma l’omicidio Matteotti ‒ dopo il rapimento del 10 giugno 1924 ‒ lo turbò e lo fece riavvicinare in Agosto alla fabbrica paterna, per fare il secondo apprendistato da operaio, a una lira e 80 centesimi l’ora.
    L’altro operaio, Mattei, nel 1921, aveva già una sua esigua esperienza nella piccola fabbrica di Cesare Scuriatti: dieci ore di lavoro al giorno per sei giorni a settimana, a 50 centesimi l’ora, per arrivare a dipingere angeli, madonne e crocifissi nelle testate dei letti in ferro battuto ‒ che, peraltro, gli lasciò la passione per la pittura.
    L’Italia andò incontro alla dittatura, la miseria fu contrastata con l’ingegno, in tutti i modi, ma la realtà per la gente rimase molto dura e Mattei non dimenticò mai le sue origini, al punto di farle diventare un punto di orgoglio nei momenti di difficoltà. Ebbe addosso sempre un’ansia di fare che lo accompagnò nella vita e che lo portò ad allontanarsi da Matelica; iniziò a cercar fortuna nel mondo del cinema, dopo una fuga giovanile nella capitale ‒ infiammata dai romanzi di avventura di Salgari − e poi per affrontare, a Milano, delle iniziative imprenditoriali.
    Al momento l’interessamento del padre Antonio lo portò nel 1923 alla conceria “Fabretti” dei fratelli Fiore a Matelica, che gli aprì le porte del mondo dell’impresa, dove iniziò la sua carriera come fattorino “garzone tuttofare”, con una paga più bassa della precedente. In questa fabbrica dove lavorarono fino a 150 operai e cinque tecnici, con macchinari all’avanguardia, Mattei intuì che ci fossero le basi per costruire un itinerario per la crescita professionale e per un riscatto dalle ristrettezze, che lo portò, col suo impegno, a essere promosso operaio e poi aiutante chimico, infine, a soli vent’anni, direttore del laboratorio, grazie alla fiducia datagli da Giovanni Fiore, che, in prima battuta, lo fece arrivare alla promozione, in segreteria, ridimensionata da Mattei nella frase: «A scrivere a macchina».
    Il carattere aperto e quell’abilità nei rapporti umani lo fecero stare vicino agli operai, che gli insegnarono tutte le tecniche utili e necessarie nella vita lavorativa industriale.
    L’ingegner Olivetti ora rientrato nella fabbrica, i cui lavoratori erano provenuti da esperienze dure (anche di paghe non ritirate pur di tenerla in vita nei momenti di difficoltà) e da soddisfazioni che avevano portato operai con la seconda elementare a capi reparto, per l’esperienza dimostrata sul campo, li conosceva e di tutti aveva un alto senso di rispetto, sentimento che porterà sempre con sé.
Partì per gli Stati Uniti l’estate del 1925, in testa l’idea di un nuovo modello di macchina per scrivere «portatile», utile per sbaragliare la concorrenza americana e tedesca principalmente. Andò a studiare la grande industria americana e carpirne i segreti e si convinse che: «In Italia non mancavano uomini e mezzi per competere, mancava rigore e metodo». Portò numerosi testi al rientro che lo impegnarono per mesi nella lettura; intanto, i fatti politici nazionali lo tennero in contatto con ambienti antifascisti e con Carlo Rosselli si mise a disposizione per far fuggire Turati dall’Italia, la sera dell’8 dicembre 1926.
    La crisi italiana, innestata dall’impatto deflazionistico conseguente alla decisione di rivalutazione della lira del 1927 ‒ la cosiddetta “quota 90”, presentava sue caratteristiche specifiche. La crisi mondiale del 24 ottobre 1929 generata negli Stati Uniti per di più dall’eccesso di indebitamento delle famiglie, attraverso la “vendita a rate”, in Italia causò un decremento della produzione industriale misurato intorno al 30% ‒ e anche oltre per gli anni a seguire − a causa della perdita di numerosi posti di lavoro. Alberto Beneduce ebbe l’incarico di tamponare con la costituzione dell’Iri nel 1933 e inoltre, il duce ideò opere d’infrastrutture nella pianura pontina, che mossero un gran numero di mano d’opera dal Nord-est. Di questi cambiamenti del mercato ne fu colpita la conceria dove lavorò Mattei, che chiuse i cancelli, obbligandolo ad affrontare una Milano, anch’essa, sotto l’effetto della crisi economica.
    Da questo periodo all’ingresso dell’Italia fascista nel Secondo conflitto mondiale, Mattei fece quell’esperienza imprenditoriale utile per poter poi affrontare l’incarico affidatogli all’Agip “da liquidare”. Intanto, la ricerca di una crescita professionale lo riavvicinò alle scuole superiori, che riprese privatamente, per arrivare a conseguire la maturità tecnica commerciale e dargli l’entusiasmo per iscriversi all’università, agli inizi degli Anni Quaranta, in scienze politiche alla Cattolica di Milano.
    Le difficoltà della guerra affrontate da Mattei, che scelse di essere parte attiva unendosi ai partigiani del Cln, gli rafforzarono quei principi di fratellanza ‒ convinzioni provenienti pure dalla cultura religiosa, che ebbero la loro influenza sulle scelte imprenditoriali future. Atteggiamenti trasmessigli dalla propria famiglia: la moralità e il senso del dovere dal padre Antonio; il rispetto del prossimo dalla madre Angela cattolica, con qualche tratto di bigottismo, lo portarono a dichiarare:
Noi crediamo nell’avvenire del nostro Paese, sentiamo il dovere di lavorare in tutta la misura delle nostre forze per costruire giorno per giorno l’edificio della libertà e delle giustizia, che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni, nella speranza che esse non debbano mai patire la dolorosa esperienza che noi abbiamo sofferto.
   Olivetti, dal canto suo superò il periodo bellico schierandosi col fronte antifascista, aiutando, altresì, molti dipendenti ebrei a fuggire dall’Italia, salvandogli la vita. Alla ripresa, aveva molto chiaro il concetto di profitto, che doveva essere assolutamente reinvestito per il benessere della comunità e ripartito con tutti i lavoratori, con un altruismo sociale che ne fece la differenza.
   Fu capace di radicare nell’impresa la cultura dell’innovazione; il rispetto del lavoro e dei lavoratori; l’eccellenza della tecnologia e del design, arrivando ad aprire verso i mercati internazionali. Ebbe, inoltre, la competenza di selezionare con felice intuito i collaboratori ‒ spesso scelti tra i giovani, avvicinando a sé le migliori intelligenze, per la maggior parte con cultura umanistica, riuscendo a far partecipare i dipendenti all’attività dell’azienda e al suo successo, portando in tal modo, maggiori risultati in termini di produttività. Accolse esuli di altri Paesi che non ne condivisero le opinioni politiche, tra cui dirigenti di notevole valore, ma anche ex preti condannati dalla Chiesa all’ostracismo.
    Mattei, basandosi su sforzi personali, aprì la sua intelligenza per il bene del Paese con la creazione dell’Eni, un progetto politico che volle l’Italia al centro del Mediterraneo. Non amava le cose complicate, alcune idee semplici essenziali e chiarissime − anche motivo per cui non accettò in un primo momento la proposta di La Pira di aiutare la Pignone, in crisi, ma in seguito alle insistenze di Fanfani acconsentì. Credeva nelle sue cose e aveva un’azione coerente e generosa. Fu un ribelle per amore, ribelle alla violenza, all’ingiustizia, alla sopraffazione. Come imprenditore espresse la convinzione che il nostro non fosse un Paese povero: «La ricchezza sta nella capacità e nella volontà dei propri uomini: il popolo, il bene comune».
    Enrico Mattei, chiamato dai suoi collaboratori “principale”, era una persona carismatica, ma anche un uomo che sapeva ascoltare e sapeva circondarsi delle migliori intelligenze.
    Tutti e due abbandonarono la “scena” in modo cruento e inaspettato, nel momento in cui l’Italia si apprestò a raggiungere gli anni del “boom”, senza avere l’opportunità di congedarsi, ma lasciando quel testamento ideologico che, purtroppo, non sarà dai molti addetti ai lavori, posto in essere.





© 2013
Per citare questo articolo
G. La Rosa, Enrico Mattei e Adriano Olivetti, due «modelli» obsoleti?, in "Il tempo la storia. L'anno zero dell'Italia giovane e creAttiva", R. Bonuglia (a cura di), Roma, Edizioni Il Tempo la Storia, 2013.