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2 novembre 2008

La commemorazione dei defunti


I patri accattinu
i mammi ammucciunu
i figghi trovinu.
I Muorti è a festa re vivi
re vivi c'hannu i picciuli[1]. 


Il mese di Novembre era quello dedicato al culto dei defunti e la tradizione voleva che ai bambini si facesse un regalo, il quale si sosteneva che lo portassero i parenti estinti: «In un meraviglioso rapporto tra vivi e morti, che solo la sensibilità finissima del popolo siciliano ha saputo creare».
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    I bambini di tutta l’area del ragusano, fino agli Anni Ottanta non si facevano attrarre dalla Befana; attendevano invece i murticièddi che facevano trovare loro un giocattolo, magari piccolo ma, cosa molto importante, donato da un parente caro, non più in vita.
   Nella notte tra il 1° e il 2 novembre tutti i bambini aspettavano i regali dai “morticini”.
   Ai bambini si narravano molti racconti, tutti improntati sulle persone defunte e soprattutto, che le anime di questi defunti sarebbero passate per le strade dei vari paesi, a fare visita ai propri cari; esortando in questo modo, il profondo significato religioso in cui credeva la popolazione della provincia ragusana: «Il mistero della fede, della resurrezione dei morti».
   Era questo il periodo dell’anno in cui ancora di più si vedevano le donne tutte “a lutto”: un fazzoletto nero, annodato sotto il mento, copriva il capo; una veletta nera larga tutta ricamata, era poggiata di sopra ed ancora lo scialle poggiato sopra la testa, che copriva tutte le spalle; i guanti neri e le calze nere pesanti, anche se fosse Estate[2]
   Ci raccontava [la mamma] che una donna era morta lasciando una bambina. I parenti cercarono dove aveva potuto nascondere l’oro, ma non riuscirono a trovarlo. In Sicilia difatti, la gente, per paura dei ladri, nascondeva gli oggetti preziosi in luoghi che nessuno poteva sospettare: sotto il pavimento o in un buco nel muro. La bambina, sapendo che passavano i morti, la sera d’Ognissanti rimase sull’uscio fino alle dodici [mezzanotte], l’ora che le anime girano dappertutto. Tra quella moltitudine ella riconobbe sua madre, la chiamò per nome e le chiese dove aveva nascosto l’oro. La voce della mamma rispose che era sotto lo scalino della porta e le raccomandò di ritirarsi dentro, perché passavano le anime degli annegati e si sarebbe spaventata. Essendo la casa al di sotto del livello stradale, si scendeva giù per due gradini interni: in una fessura tra questi vecchi scalini sua madre aveva nascosto tutta la sua ricchezza. La bambina, atterrita nel riudire la voce materna, andò a letto febbricitante. Il giorno dopo cercò nel luogo indicato e trovò il piccolo tesoro; ma lo stupore e il terrore furono così forti che la piccola se ne morì.
   Questa è una storia nota nel ragusano.
   Già una settimana prima del giorno tanto atteso, nell’aria si avvertiva un certo movimento. Erano momenti d’euforia, misti a tensione; un’aria di speranza e d’apprensione insieme, causata dal giudizio sul comportamento che i morticini potessero esprimere, premiando i bambini con dei regali oppure, cosa terribile, rimproverandoli con il carbone per via di qualche marachella.
   La sera prima i bambini avevano la cura di ricordare con chiarezza l’elenco dei giocattoli che volessero dai defunti, scrivendo letterine di richieste e in mezzo, inserite promesse di futura bontà: impegno al rispetto di mamma e papà e al comportamento.
   La mattina della “festa dei morti” si doveva digiunare e se qualcuno non avesse resistito, rischiava di trovare un pezzo di carbone.
Ecco che a questo punto, arrivava la parte più bella: la caccia al tesoro: «Avanti! – diceva la mamma – ora cerca. Cerca dappertutto, perché i morti sono capricciosi. I regali li nascondono bene. Se non li trovi, loro se li riportano». Questo fatto, da un lato, creava una certa ansia per il ritardo del ritrovamento, ma, dall’altro, era la conferma che l’attesa visita dei morticini, fosse avvenuta, anche se fino all’ultimo momento si notasse negli sguardi dei più piccoli il timore di una così grave dimenticanza.
   La ricerca era frenetica e seguita da tutta la famiglia con apprensione, ma il ritrovamento di uno dei doni, identico a quanto si richiedeva nella letterina, portava a grandi esultazioni, con il cuore di questi bambini che sembrasse pronto a scoppiare nel petto, da un momento all’altro.
Ricordo che entravo sempre con un’emozione profonda, un misto di paura (qualche Morticino poteva essersi attardato ed essere ancora nella stanza), di timore (qualche marachella poteva essere stata punita col carbone), di speranza (chissà se la ultima letterina era arrivata in tempo a destinazione?).
   Grida di gioia spaccavano l’aria, nelle case, dove il dolore aveva raggiunto quelle famiglie che avevano perduto una persona cara ma ricompensata dall’allegria e dall’esultanza dei bambini, rappresentazione vivente del futuro e della speranza nella vita.
   Questa tradizione era perpetrata di solito fino all’età di sette-otto anni, poi o per via degli amichetti o perché non fosse più età di giocattoli, in un modo o nell’altro si veniva scannaliàti, in altre parole si raccontava ai figli la realtà dei fatti.
   Superata l’età, i bambini erano orgogliosi di contrastare i genitori raccontando la verità, al punto di rifiutare il giocattolo e in realtà ci furono dei casi in cui le mamme riconsegnavano i giocattoli ai commercianti, anche ambulanti: «’Ddu scumunicatu ciù u sapi. Chi fa mu cangia, ci pigghiu n’avitra cosa ciu utili!»[3].





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[1] “I padri comprano / le mamme nascondono / i figli trovano / I Morti è la festa dei vivi / dei vivi che hanno i soldi”.
[2] Usanza protratta sino agli inizi degli Anni Settanta.
[3] “Quello scomunicato ormai lo sa. Che me lo cambia, gli prendo una cosa più utile!”.