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8 settembre 2019

Dalla ABCD alla Purfina (9)

Dall'A.B.C.D. alla Purfina

L’A.B.C.D. l’origine della raffineria di Roma che portò alla Permolio e gli aspetti sociali





Nella capitale, nella prima metà degli anni Cinquanta, c’erano ancora centinaia di famiglie che abitavano in baracche di legno con i tetti di latta ondulata o in tuguri indecorosi ricavati negli scantinati e negli antichi acquedotti romani, come già rilevato dal IX Censimento generale della popolazione del 4 novembre 1951. 
   Purtroppo, il fenomeno dell’urbanesimo del dopoguerra aveva ampliato la popolazione delle borgate periferiche di Roma: una metropoli spontanea.

   Disegnate da un volere governativo furono affidate all’Istituto fascista autonomo case popolari ‒ IFACP, che idealizzò numerose borgate, in conformità a quello che precedentemente e autonomamente furono le costruzioni rurali abusive; su terreni di speculazione di proprietari terrieri che vendettero a prezzi più alti a coloro che non poterono permettersi un’abitazione limitrofa al centro cittadino.

   Già dal 1925 l’interesse sullo sviluppo urbano della capitale fu oggetto di primaria attenzione del regime, che mosse una sorta di sovrapposizione tra produzione sommersa (connessa alle strutture dell’economia e del mercato del lavoro) e forme di produzione abusiva (connessa alle disposizioni che regolano l’uso del suolo). Le prime borgate costruite dal fascismo, però, confortevoli non lo erano per niente: veri e propri sconci urbanistici destinati a immigrati e sbaraccati. Anche se largamente documentato dal maestro Pasolini, Ettore Scola volle portare a conoscenza di un pubblico più ampio il fenomeno con Brutti, sporchi e cattivi del 1976, il cui personaggio principale “Giacinto” fu interpretato da Nino Manfredi. La pellicola rappresentò l’idea, inoltrata (in questo caso) fino alla metà degli anni Settanta, di quello che fu la vita dei cosiddetti «baraccati» delle periferie romane; sciatte e senza rete fognaria, i cui disordini furono affrontati maggiormente con interventi di polizia, anziché con le misure sociali, attraverso operatori specializzati posti a disposizione dalla comunità scientifica. Posero, per questo, negli anni Cinquanta, il Comune di Roma al centro di polemiche per il mancato coordinamento del settore dell’edilizia popolare, oggetto, inoltre, di attenzione per episodi di corruzione da parte di grandi società immobiliari.
   Fu il Governatorato di Roma ‒ organo di governo del fascismo eretto nel 1925 ‒ a realizzare le borgate romane, mentre fu l’Istituto fascista autonomo case economico popolari - IFACP a gestirne l’ambito edilizio. Il Governatorato fu la voce di Mussolini in persona, ma “contrapposta”, nel 1929, a condizionarne i destini urbani della periferia, da parte del principe Boncompagni Ludovisi, che intervenne in un momento di notevole emergenza contraddistinta da: crisi di alloggi, sblocco dei prezzi degli affitti, aumento della disoccupazione, aumento del flusso migratorio principalmente dalle regioni confinanti, proliferare delle baraccopoli.
   Nel 1930-32 grandi nuclei edilizi furono realizzati dall’IFACP, tra cui a Donna Olimpia ‒ 534 alloggi per un costo di 16. milioni di lire ‒ tanto da entrare nel novero di “borgata fascista”. Furono soprannominati i «grattacieli» gli edifici popolari finiti di costruire nel 1938 e con quest’appellativo riportati da Pasolini in Ragazzi di vita. Sorsero isolati al confine tra le due parti di Monteverde, al fondo valle, un po’ prima di via Vitellia, in un sentiero (via Donna Olimpia) che proseguì verso il punto detto «ponte bianco» (costruito nel 1929) e che fu utile per raggiungere l’ospedale della Vittoria, poi Littorio e oggi San Camillo del Lellis, provenendo da viale del Re, oggi di Trastevere. Attorno ai «grattacieli» – formalmente “case convenzionate” – alti fino a nove piani (oltre il limite massimo del regolamento edilizio di allora) e con fino sei appartamenti per piano, tutt’intorno rimase il vuoto sino al secondo dopoguerra, la cosiddetta «Valle dei Canneti».
   Anzitutto, per concorrere ai sorteggi [degli alloggi dell’Istituto, nda] occorreva che i capifamiglia, e i familiari al seguito, fossero in regola con i requisiti d’ordine anagrafico, penale, catastale ed economico stabiliti dal Regolamento. Figuravano tra questi: cittadinanza italiana, famiglia legalmente costituita, stato penale negativo, buona condotta civile e politica, non essere proprietari di fabbricati e alloggi nel territorio del Governatorato di Roma, possedere un reddito derivante dal proprio lavoro contenuto in limiti tali da giustificare il beneficio.
   In contrapposizione alla formazione delle borgate realizzate nel fascismo, nell’ambito dell’abusivismo edilizio, già negli anni Venti, si ebbe il consolidamento in borgate “fuori piano” di alcuni baraccamenti nella Magliana.
   Scriverà Adriano Olivetti:
   Quartieri organici autosufficienti si sono iniziati in questi ultimi mesi a Torino, Milano, Roma per merito del piano incremento occupazione operaia. Si tratta di esperienze iniziali di grande interesse. E gli urbanisti italiani non possono non dichiarare il loro compiacimento per la prima attuazione dei loro programmi.
   Risultato del piano voluto da Fanfani sin dal dopoguerra, nella qualità di ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, con l’obiettivo di affrontare il grave problema edilizio in tutto il territorio e, soprattutto, per dare incoraggiamento all’occupazione di un gran numero di operai necessari alla costruzione di nuovi alloggi. Il “Piano INA-Casa”, fu finanziato sia dallo Stato, sia dai privati, ma anche dagli stessi lavoratori che accettarono una piccola trattenuta mensile, in segno di solidarietà nei confronti di coloro che non ebbero un lavoro. Un progetto nato con delle forti basi sociali di inclusione e solidarietà, con lo scopo di reinserire nella collettività coloro che, purtroppo, ne fossero rimasti ai margini, a causa della guerra terminata.
   I timori che si stesse mettendo in piedi un lento, pesante e dispendioso apparato furono presto smentiti dalla costituzione di un ente centralizzato e snello, che si strutturò su una fondamentale diarchia. Innanzitutto il Comitato di attuazione del piano, un organo che svolgeva vigilanza generale, emanava norme, distribuiva fondi e incarichi, diretto da Guala. Questi era un ex partigiano, un manager pubblico, legato a quella sinistra cattolica che vedeva tra le sue figure di spicco uomini come Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Fanfani stesso. Dal 1954, per un paio d’anni, fu anche direttore generale della RAI (Radiotelevisione Italiana); nel 1960 lasciò la vita pubblica per farsi frate trappista.
   Nei suoi aspetti architettonici e urbanistici il piano era coordinato dalla Gestione INA-Casa, diretta dall’architetto Arnaldo Foschini (1884-1968). Questi era un esponente di rilievo della ‘scuola romana’, preside della facoltà di Architettura della capitale, dirigente di associazioni degli architetti, ben conosciuto negli ambienti dell’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazioni), il quale avrebbe avuto un ruolo importante nella gestione economica del piano.
   Notevolissimo fu, infatti, lo sviluppo di edilizia popolare in questa parte del quartiere Portuense e fino ai Colli Portuensi; come nel 1953 fu incentrato lo sviluppo “intensivo” della zona Marconi, che si espanse nel perimetro tra la strada ferrata della Roma-Pisa e il margine del Tevere da una parte e da ponte dell’Industria a ponte Guglielmo Marconi dall’altra.
   Il ponte Marconi fu realizzato su un progetto degli ingegneri Guido Viola e Arcangeli e dell’architetto palermitano Giuseppe Samonà. Iniziato a costruire nel 1937, fu interrotto durante il periodo bellico, anche se temporaneamente allestito con una passarella in legno nella parte centrale, che rimase per lunghi periodi. I lavori furono ripresi proprio nel 1953, per giungere all’inaugurazione che fu svolta nel 1955.
   Dietro il Parco Paolino e la facciata d’oro di San Paolo, il Tevere scorreva al di là di un grande argine pieno di cartelloni: e era vuoto, senza stabilimenti, senza barche, senza bagnanti, e a destra era tutto irto di gru, antenne e ciminiere, col gasometro enorme contro il cielo, e tutto il quartiere di Monteverde, all’orizzonte, sopra le scarpate putride e bruciate, con le sue vecchie villette come piccole scatole svanite nella luce. Proprio lì sotto c’erano i piloni di un ponte non costruito con intorno l’acqua sporca che formava dei mulinelli; la riva verso San Paolo era piena di canneti e di fratte.
   La cerimonia fu presenziata dal sindaco Rebecchini, che aprì il corteo, a cui confluirono gli abitanti
della zona che si apprestarono ad avvicinarsi alle autorità civili e militari; vide la presenza della principessa Maria Cristina Bezzi Scali e della figlia del famoso scienziato italiano Elettra Marconi.
   La storia del ponte dell’Industria, più conosciuto dai romani come «ponte di ferro», invece, è più antica, tanto da risalire al secolo precedente. Infatti, la progettazione a cura dell’ingegner Barthelémy risale al 1861 e già dal 1862 iniziò la costruzione dei piloni di ferro in Inghilterra, per essere poi assemblati sul posto da una società belga, cui fu affidata la realizzazione di quello che inizialmente fu il ponte “San Paolo”. Inoltre, per dare seguito alla navigazione sul Tevere (che era del tutto ordinaria), il ponte, inizialmente, fu predisposto per alzarsi al centro e far passare le imbarcazioni più alte. Inaugurato il 24 settembre 1863, alla presenza di Pio IX, dopo il 1910 la struttura in ferro del ponte subì dei cambiamenti, con la modifica delle campate che divennero ad arco, come tuttora visibili.
   Nel secondo dopoguerra il ponte assurse alle cronache a causa di un evento luttuoso. Si trattò di un eccidio commesso dai tedeschi il 7 aprile 1944, nei confronti di dieci donne: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Assunta Maria Izzi, Silvia Loggreolo, Concetta Piazza, Esperia Pellegrini, Arialda Pistolesi; così come rievocò il misfatto la partigiana dei Gruppi di azione patriottica – GAP Carla Capponi:
   Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e aveva grossi depositi di farina. Decisero di assaltare il deposito che apparentemente non sembrava presidiato dalle truppe tedesche. Il direttore del forno, forse d'accordo con quelle disperate o per evitare danni ai macchinari, lasciò che entrassero e si impossessassero di piccoli quantitativi di pane e farina. Qualcuno invece chiamò la polizia tedesca, e molti soldati della Wermacht giunsero quando le donne erano ancora sul posto con il loro bottino di pane e farina. Alla vista dei soldati nazisti cercarono di fuggire, ma quelli bloccarono il ponte mentre altri si disposero sulla strada: strette tra i due blocchi, le donne si videro senza scampo e qualcuna fuggì lungo il fiume scendendo sull'argine, mentre altre lasciarono cadere a terra il loro bottino e si arresero urlando e implorando. Ne catturarono dieci, le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio, si udivano solo gli ordini secchi del caporale che preparava l'eccidio. Qualcuna pregava, ma non osavano voltarsi a guardare gli aguzzini, che le tennero in attesa fino a quando non riuscirono ad allontanare le altre e a far chiudere le finestre di una casetta costruita al limite del ponte. Alcuni tedeschi si posero dietro le donne, poi le abbatterono con mossa repentina "come si ammazzano le bestie al macello": così mi avrebbe detto una compagna della Garbatella tanti anni dopo, quando volli che una lapide le ricordasse sul luogo del loro martirio. Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue. Il ponte fu presidiato per tutto il giorno, impedendo che i cadaveri venissero rimossi; durante la notte furono trasportati all'obitorio dove avvenne la triste cerimonia del riconoscimento da parte dei parenti.
   Il ponte dell’Industria nacque con lo scopo di far passare i treni della linea per Civitavecchia che transitando dalla stazione di Trastevere giungessero alla stazione Termini. La linea ferroviaria fu costruita totalmente in epoca pontificia e fu detta la “Pio-Centrale”; concessa per novantanove anni alla Società Casavaldès e compagni «senza le garanzie del minimo di interesse da parte del governo». La costruzione fu affidata all’imprenditore francese Hubert Debrousse, che nell’ottobre del 1856 aprì i cantieri nei pressi di Porta Portese, occupando circa 500 operai e mentre il collaudo fu svolto il 25 marzo 1859, la conseguente apertura al pubblico avvenne il successivo 16 aprile.
   Alle 6.30 un convoglio partì da Civitavecchia trasportando 240 persone, per la maggior parte pescatori; sostò per mezz’ora alla stazione di Palo, per consentire il carico del pesce pescato durante la notte da offrire in omaggio al papa, ai cardinali e ai ministri, giunse alla stazione di Porta Portese alle 9.30.

   L’inaugurazione della linea e l’apertura al pubblico avvennero il 16 aprile con una cerimonia svoltasi contemporaneamente nelle stazioni di Porta Portese e di Civitavecchia; il prezzo del biglietto per la sola andata costava lire 9,80 in prima classe e 6,30 in seconda, una somma, che osserva Negri, risultava più alta del 31% delle tariffe in vigore nelle ferrovie austriache, piemontesi, lombardo-venete e francesi. La sua entrata in funzione rivoluzionò il sistema dei trasporti commerciali e ridusse notevolmente il volume del traffico del porto di Ripagrande, tanto che in pochi giorni dopo l’apertura della linea i dieci capi facchini di Ripagrande chiesero l’autorizzazione a lavorare nella stazione di Porta Portese dal momento che «arrivata la ferrovia da Roma a Civitavecchia, tutte le merci ed altro che prima venivano per mare» erano trasportate «con li vagoni della strada ferrata». Anche tra i viaggiatori ebbe un gran successo. Nel primo mese di attività (17 aprile-15 maggio) la linea trasportò 8500 viaggiatori e l’archivio del Commissariato generale delle ferrovie testimonia che in più d’una occasione l’amministratore delegato della Società chiese al Commissario l’autorizzazione ad organizzare corse straordinarie, per accogliere i numerosi viaggiatori che non erano riusciti a trovare posto sui convogli.
   Lo scalo ferroviario inizialmente costruito fuori Porta Portese fu attivato il 24 aprile 1859, per arginare il problema di attraversamento del Tevere e a seguito dell’inaugurazione del ponte San Paolo fu fatto funzionare, il 24 settembre 1863, questo prolungamento della Civitavecchia-Roma fino alla Stazione generale alle terme di Diocleziano, che in seguito sarà la stazione Termini.
   In seguito, la stazione di Trastevere trovò dislocazione nel settembre 1883, in quella che oggi è piazza Ippolito Nievo. Fu iniziata a costruire nel 1889 e inaugurata nel 1891, per alleggerire il traffico ferroviario della stazione Termini. L’attuale collocazione della stazione – in piazzale Flavio Biondi – risale al 1911, dove in precedenza, vi furono solo dei locali riferiti alla stazione di San Paolo. In quell’anno, inoltre, fu abbandonato il percorso ferroviario di congiungimento con la stazione Termini e modificato il ponte per dare spazio al traffico viario, assumendo il nome mantenuto sino ad ora. I binari del vecchio percorso furono, comunque, lasciati (ancora visibili fino alla fine degli anni Settanta) per favorire la movimentazione delle merci utilizzate dalle varie industrie nel circondario, in collegamento con la ultima sede della stazione Trastevere.
   Del resto fino alla fine del secolo XIX nella zona, le principali strade furono, oltre a via Portuense, vicolo di Pietro Papa e vicolo Pozzo Pantaleo (di collocazione diversa dall’attuale), per il resto ampi appezzamenti di terreni.
   L’emanazione di alcune leggi elaborate dal governo Giolitti tra il 1907 e 1908 permise al Comune di acquisire i terreni per procedere al piano di industrializzazione della zona. Tra questo, con dei fondi straordinari, fu possibile la costruzione del porto Fluviale, all’altezza proprio del ponte ferroviario di ferro, voluto dal pontefice Mastai Ferretti che interessò l’arcivescovo belga Francesco de Merode di seguire lo svolgimento dell’opera. La struttura portuale fu ampliata con le sedi dell’Ufficio portuale della Marina militare e dell’Ufficio delle dogane, che il Ministero delle finanze impiantò dal 1913; oltre al posizionamento di imponenti gru necessarie per il carico e scarico del carbone essenziale per la società del gas, nonché delle merci depositate nei Magazzini generali e ancora visibili sulla riva sinistra.
   Nei secoli precedenti si trattò di una zona paludosa, soggetta a frequenti esondazioni del Tevere, maggiormente nella parte dell’ansa, e quindi solo in parte coltivata; nel periodo terminale del XIX secolo fu incentrata nelle prossimità del ponte dell’Industria un’area industriale, grazie anche alla presenza dei percorsi del fiume e della ferrovia, che permisero i trasporti delle merci. Infatti, nel 1885 nasceva nella riva destra il mulino Städlin, una costruzione di modeste dimensioni, che fu rilevata nel 1905 dalla Società italiana molini e panifici Antonio Biondi di Firenze e che nel 1907 ampliò i suoi locali con dei lavori di sopraelevazione a cura dell’ingegner Antonio Flory. I mulini Biondi fino alla metà degli anni Cinquanta fornirono le farine per cercare di soddisfare le necessità alimentari primarie, sempre maggiori a causa dell’incremento di densità demografica. Sempre nella riva destra, un po’ avanti alla struttura del porto Fluviale, il 21 aprile 1936 nell’ambito del Natale di Roma, fu inaugurato da Mussolini il Consorzio agrario cooperativo di Roma, per tutti «il granaio dell’Urbe»; una struttura in cemento armato progettata dall’architetto Tullio Passarelli nel 1935.
   Spostandoci verso l’interno iniziò a delinearsi un grande spiazzo che diverrà piazza della Radio e da qui si videro molto chiaramente due direttrici. Il viale Guglielmo Marconi tracciato intorno al 1939-40, anche se allora non asfaltato, di collegamento con la zona in cui si sarebbe dovuta svolgere nel 1942 la Esposizione universale di Roma – l’EUR e con il mare dei “bagni” di Ostia; l’altra la via Oderisi da Gubbio, indicata già nelle mappe degli anni Venti come “Collettore di destra” e che sarebbe proseguita nell’antica via Campana, oggi via della Magliana, fino al mare di Fiumicino.
   Tra queste due strade principali, moderne e civili abitazioni iniziarono a mostrarsi in quell’area alla sinistra di via Portuense, che alimentarono lo sviluppo della zona, in contrapposizione alle baracche del lungotevere che s’insediarono nel piano di “Pietro Papa”. Una zona in piena espansione agli inizi degli anni Cinquanta, un continuo e grande cantiere, che vide la piantumazione dei platani che tuttora gareggiano con le altezze dei palazzi.
   Frequentata da famiglie di manovali, immigrati che entrarono in contatto con i vecchi residenti, tra cui gli operai della raffineria oltre ad artigiani e impiegati salariati nonché professionisti eterogenei, tutti poco amalgamati nuovi abitanti dei palazzi in costruzione. Altrettanti furono i problemi riferiti ai mezzi di trasporto e agli insufficienti servizi d’illuminazione, collegati allo sviluppo della nuova zona, che divenne subito molto popolosa e che fu considerata col passare del tempo il “centro commerciale” del quartiere Portuense.
   Per quanto riguardò la raffineria, nel 1953 la produzione di petrolio lavorato fu di 340.000 tonnellate, ma le sorti della Permolio attribuirono un incisivo colpo all’economia nazionale e anche a quella romana.
   Il complesso era così articolato: un impianto di piroscissione catalitica termophor catalytic cracking per il trattamento dei residui di distillazione, tre impianti di distillazione topping a colonne multiple, un impianto reforming per il miglioramento delle benzine e dei petroli dopo la distillazione, uno di desolforazione catalitica della benzina, due per l’etilazione delle benzine, uno per la raffinazione discontinua di benzina ragia, petroli e lubrificanti, uno per ossidazione di bitumi per impieghi stradali, e per 132 serbatoi per prodotti grezzi, benzine, petrolio e ragia, prodotti scuri, e gas liquefatti.
   Nella primavera 1954 iniziarono a circolare le prime voci riguardanti la vendita degli stabilimenti Permolio a capitali stranieri e la Cgil e il Sindacato dei lavoratori del petrolio - SILP manifestarono contro, invitando il presidente del Consiglio Scelba a far rimanere le raffinerie (che occuparono all’incirca 1.200 lavoratori negli impianti di Milano, Genova e Roma) in mani italiane, ma una serie di revisioni all’interno dell’Eni, lasciò, comunque, che la Fina italiana della compagnia finanziaria belga Petrofina, che poi risultò essere la Compagnie generale financiere des petroles belges, affiliata alla Anglo-Iranian oil company, rilevasse il trust inglese che controllò il petrolio italiano, come già indicato, gettando nel panico circa il 20% degli operai, che sarebbero andati incontro al licenziamento. A metà maggio, i 400 lavoratori di via Portuense scioperarono per rivendicare miglioramenti economici.
   Nonostante tutti questi interessamenti, manifestazioni e assemblee, entro il primo semestre si conclusero le operazioni riguardanti il passaggio delle quote azionarie di maggioranza della Permolio. Entro la fine di giugno, infatti, l’Associazione nazionale dell’industria chimica rese noto che la Permolio intese procedere alla smobilitazione del 30% del personale, a seguito della cessione del 70% delle quote azionarie ai capitali stranieri. Inglesi, americani con la Gulf Oil Company e belgi con la Purfina si dichiararono interessati. Gli incontri portarono ad accordare alla Purfina le azioni della Permolio. Il segretario generale del SILP Aldo Trespidi avviò la vertenza sindacale dandone informazione alla stampa che così concluse:
   La fondatezza e la giustezza della nostra posizione ci fanno sperare che, essendo per contro estremamente debole la posizione degli industriali ed assurda la loro proposta di licenziare 350 persone su 1200, il buon senso finisca per prevalere e ci si renda conto della necessità di rinunciare a così disastrosi progetti. Noi, fedeli all’impegno contrattuale, seguiremo la procedura degli accordi confederali con lealtà. Diciamo però fin d’ora che esigiamo la stessa lealtà dalla controparte e che un accordo sarà possibile soltanto se la Permolio ritirerà la sua pretesa di licenziare e se la Purfina assorbirà tutti i lavoratori garantendo loro tutti i diritti maturati presso la Permolio. In caso contrario lotteremo con tutte le nostre forze per realizzare il giusto obiettivo di impedire ogni licenziamento nell’interesse dei lavoratori e dell’economia nazionale.
   In estate si parlò di 76 oppure 85 operai in aria di licenziamento per il 15 luglio, ma nella seduta del consiglio comunale del 19 luglio, come risposta all’interrogazione posta dai consiglieri di Lista cittadina sul licenziamento degli operai, il sindaco Rebecchini lesse un telegramma della società Permolio, che indicò una favorevole risoluzione. Fu l’ultimo atto della direzione della società Permolio di Roma, non più nelle sorti del conte Luigi Miani, deceduto nel 1953.


N.B. per facilitare la lettura on line sono state omesse le note, che, invece, saranno complete nell'e-book che sarà possibile scaricare...

La fotografia riproposta da Tracce Storiche è una veduta del ponte G. Marconi ed è tratta da Almanacco di Roma


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