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1 ottobre 2017

Scemi di guerra: l’apporto degli psicologi nella Grande guerra


Dal 28 luglio 1914 il conflitto mondiale continuò nel terzo anno e per gli italiani – entrati in guerra il 24 maggio 1915 – fu il secondo anno di “guerra per l’unità d’Italia” e per la difesa dei confini dalle truppe asburgiche.
   Il 1917 fu, di fatto, l’anno di maggiore sofferenza per la popolazione civile, poiché scarseggiarono i beni di prima necessità a causa della mancanza di braccia da offrire ai campi.
   Benedetto XV, nel suo continuo lancio di appelli, con la pubblicazione dell’epistola Nota di pace dell’1 agosto 1917, parlò di «inutile strage», invocando ancor più «una pace giusta e duratura».
   Il 1917 aprì con molta stanchezza sentita a livello europeo, come pure tra i soldati italiani al fronte, al punto che vide nel primo trimestre 349 disertori tra le file dell’esercito[1]; tanto che il ministro della Guerra, generale Paolo Morrone, propose una modifica all’ordinamento dell’esercito con l’aumento dell’organico dell’arma dei carabinieri reali[2], proprio per un maggiore controllo tra i ranghi delle truppe nelle trincee.
   Il “fronte interno” stimolato da subito dal governo Salandra – affinché supportasse i soldati nelle trincee – iniziò a evidenziare segni di cedimento, nonché una non sottaciuta indignazione morale. Sia le popolazioni colpite dai combattimenti nelle zone di confine, sia quelle delle retrovie, che il resto nell’intero Paese furono coinvolte nel conflitto: in realtà, ogni famiglia italiana ebbe uno o più familiari combattenti, provenienti da vari luoghi sperduti, situati anche all’opposto del fronte di guerra.
   Del resto, da metà maggio iniziò la decima battaglia dell’Isonzo, con l’obiettivo prefissato dal Comando supremo di raggiungere Trieste; a metà agosto ci fu l’undicesima, con un fronte che si estese fino al mare Adriatico, per la conquista dell’altopiano della Bainsizza. Una battaglia che fu considerata la più importante fin’allora combattuta dall’esercito italiano, che travolse le linee nemiche e si concluse con la cattura di numerosi soldati austro-ungarici. Verso la fine di ottobre, poi, ci fu la dodicesima e ultima battaglia dell’Isonzo, che iniziò nella notte del giorno 24 e che terminò – dopo quindici giorni di cruenti scontri – col travolgimento della linea di difesa di competenza della 2a Armata: consegnata alla Storia come la “disfatta di Caporetto”.
   Un arretramento fino al fiume Piave, dove si barricarono le truppe italiane, causato da un ingrossamento delle file dell’esercito asburgico, avuto grazie all’apporto di truppe tedesche liberate dal controllo del fronte orientale – per via dell’avvio della “Rivoluzione russa” – che vide la formalizzazione con la firma del trattato di pace di Brest Litovsk, tra la Russia e gli Imperi centrali. 
   Dall’8 novembre 1917 si dovette attendere un altro anno per concludere la guerra in modo vittorioso per l’esercito italiano, con quella che sarà la battaglia dei “Cavalieri di Vittorio Veneto”, che cacceranno definitivamente gli asburgici dal suolo italico al 4 novembre 1918, concludendo in tal modo la “Quarta guerra d’Indipendenza”.
   Nel frattempo, la vita quotidiana delle popolazioni interessate si svolse, in questi due anni, tra la paura per la propria vita e lo stupore per l’impiego di mezzi, armi e artiglierie mai conosciute prima, seppur in un ambito regionale che fu abituato ad avere a che fare con i soldati anche in tempo di pace, viste le località di confine.
   Per quanto riguardò, infatti, i territori del Friuli Venezia Giulia furono le donne a dover offrire il loro contributo, sin dall’inizio del conflitto. Donne montanare delle Alpi carniche, che si trovarono a dover crescere le proprie famiglie, in assenza dei mariti inviati al fronte; furono loro (donne-soldato alle dipendenze dei Comandi tappa che operarono tra la 4a e la 2a Armata) ad apportare un grande aiuto ai comandi militari sul territorio, quali ‘portatrici’ di rifornimenti di qualsiasi necessità: dai viveri alle munizioni, al ricambio di abiti ai soldati, come pure, per la costruzione dei nuovi percorsi militari. Udine, perciò, fu detta “la capitale della guerra”, ma successivamente, divenne la ‘città ospedale’ di riferimento per la seconda linea, che richiese un intervento massiccio di crocerossine, provenienti da famiglie appartenenti a ceti sociali agiati e nobiliari, che furono distribuite nei vari nosocomi istituiti nel territorio, tra cui l’ex collegio “Toppo” affidato alla croce rossa, che tenne fino al 27 ottobre 1917.
   Dopo Caporetto le donne friulane in solitudine dovettero subire, inoltre, la riconquista dei territori da parte degli austro-ungarici e tedeschi, che obbligarono colonne di profughi a spostarsi nel territorio italiano, raggiungendo anche aree più lontane, per stabilirsi persino in Sicilia e Sardegna: quasi 250.000 civili provenienti da Veneto e Friuli Venezia Giulia.
   Per quanto riguardò il Veneto, dopo Caporetto venne una “banda di predoni germanici” a saccheggiare le terre dei contadini e col solo spirito di distruzione, le cui conseguenze portarono a migliaia di morti tra i civili, soprattutto, per mancanza di cibo e per malattie. In questi territori, a differenza di come furono trattati i prigionieri asburgici, le truppe nemiche costrinsero a veri e propri lavori forzati le popolazioni civili, per favorire la ricostruzione d’infrastrutture distrutte dai bombardamenti: dalle dieci alle dodici ore di lavoro, per una misera paga simbolica e un pasto fugace; oltre agli stupri di massa perpetrati nei confronti anche di bambine.
   In Trentino, infine, l’avvento della guerra nel 1914 trasformò Trento in ‘una grande caserma’ popolata da soldati asburgici provenienti da tutte le terre dell’impero, che fecero allontanare oltre i due terzi della popolazione civile. All’inizio della guerra in Trento risiederono circa 30.000 abitanti e chi rimasero, dovettero convivere con i militari, che divennero oltre 100.000 e che requisirono numerosi edifici pubblici e privati per adibirli ad alloggi, magazzini, nonché ospedali, come fu Udine per l’esercito italiano, oltre che luoghi di raduno per i prigionieri italiani. Col passare del tempo, non poté che aumentare la crisi economica e alimentare che colpì la cittadinanza rimasta nell’intero Tirolo. Fu, comunque, la questione nazionale ad avere anche un peso notevole nella vita quotidiana dei trentini: molti furono gli uomini che si arruolarono nell’esercito italiano, tra i quali ricordiamo gli eroici esempi di Cesare Battisti e Fabio Filzi.
   Nel campo militare, il comandante delle Armate, il tenente generale Luigi Cadorna, ingenerò molto timore psicologico tra gli ufficiali generali e superiori; col paventato ‘esonero’ dall’incarico di comando alimentò la mancanza di fiducia e la mancanza di sincerità nei rapporti gerarchici, che favorirono omissioni circa la reale situazione dei reparti schierati.
   Nella realtà, Cadorna anche di questi comportamenti ne sarà segnato dalla Storia.
Prigionieri italiani durante le prime fasi della battaglia di Caporetto
   Egli, anziché assumersi la responsabilità della falla creatasi nella linea di difesa, aperta anche per responsabilità dell’inspiegabile silenzio delle artiglierie di grossi e medi calibri agli ordini del generale Badoglio, comandante del XXVII Corpo d’armata[3], inquadrato nella 2a Armata del generale Capello – il conquistatore di Gorizia nell’estate 1916 – nel noto bollettino del 28 ottobre, incurante delle ripercussioni nei confronti degli alleati, dichiarò che: 
La mancata resistenza di riparti della 2a Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.
   Evidenziando, invece, che le altre grandi unità italiane tennero le postazioni, all’indomani della ritirata delle truppe attestate nei pressi di Caporetto.
   In extremis queste dichiarazioni furono fatte ritirare dal nuovo presidente del Consiglio dei ministri Orlando, anche se ormai le copie dei giornali italiani all’estero furono consegnate. L’azione di Orlando fu, pertanto, incalzata dalle storiche frasi enunciate al suo insediamento:
La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell'onore e la ragione dell'utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere, resistere, resistere!
   Flessibile e smaliziato, il palermitano Vittorio Emanuele Orlando fu abituato ai compromessi e alle schermaglie parlamentari e poco coincise col carattere autoritario del “generalissimo” Cadorna, uomo ostinato e caparbio, figlio del generale dei bersaglieri Raffaele, che ne fu al comando nella storica “presa di Porta Pia” del 20 settembre 1870. I due si trovarono nell’occasione di Caporetto agli antipodi, per vedute globali dissimili, tanto è vero che in Cadorna non si poté includere l’altra metà di emisfero civile e politico: non contemplato.
   Alla luce dei fatti, pressioni, anche da parte dell’Intesa, portarono il presidente Orlando a firmare la sostituzione di Cadorna, con la nomina del comandante del XXIII Corpo d’armata della 3a Armata, il tenente generale Armando Diaz a capo di Stato maggiore dell’esercito.
   Cadorna lo seppe poco prima di recarsi a cena il 7 novembre: «Così non si tratta nemmeno un furiere al cambio di consegne della fureria!», disse la sera dell'8 novembre, quando uscì furente da un colloquio di un'ora e mezzo con il suo successore.
   Promoveatur ut amoveatur così fu assegnato un incarico pressoché onorifico a Cadorna, che fu tolto dalla scena nazionale, difatti, partì per Parigi per raggiungere il costituendo Consiglio superiore interalleato, che si insediò a Versailles e in cui gli italiani furono rappresentati, appunto, dal 14 novembre 1917.
   La presenza di Diaz rese concordi sia il re Vittorio Emanuele III, sia il presidente Vittorio Emanuele Orlando, che le truppe schierate al fronte: una svolta che vide l’apporto di divisioni alleate (sei francesi e quattro inglesi) da poter schierare nel fronte italiano.
   Con questi nuovi elementi in campo – senza che si realizzò, comunque, un fattivo intervento – le truppe italiane seppero riorganizzarsi in brevissimo tempo e posero opposizione all’esercito imperiale nei pressi del monte Grappa, con la prima battaglia del Piave di metà novembre.
   Nel fronte interno, intanto, i prezzi delle derrate alimentari subirono degli aumenti, al punto che nel periodo del 1917 la situazione precipitò notevolmente: pane, pasta, polenta e carne ebbero un rincaro fino al 25%. I bombardamenti costrinsero le popolazioni a rifugiarsi nelle cantine e per molto tempo si dovette sopperire alla mancanza di corrente elettrica per l’illuminazione pubblica oltre a quella di carburante, carbone e legna per i riscaldamenti durante il periodo invernale. Le scuole, nonostante cercassero di portare avanti i programmi di studi – in cui fu attuato un ostracismo nei confronti di testi di autori o editori austriaci e tedeschi – subirono numerosi compattamenti a causa dell’assenza di professori arruolati e inviati al fronte.
   L’attività dei professori nelle trincee, comunque, non terminò mai, poiché si misero sempre a disposizione dei soldati. Sotto il profilo sociologico e dello sviluppo nazionale, la terribile esperienza delle trincee si configurò come la vera prima occasione di mescolanza delle genti provenienti da tutte le regioni d’Italia. Dal 1861 il rapporto con i “piemontesi” non fu certo idilliaco nelle terre dei briganti, come agli inizi in Sicilia, quindi l’incontro tra i meridionali ex borbonici con gli ex papalini dell’Italia centrale e con gli ex asburgici del settentrione fu l’occasione di una vera unificazione degli Italiae populos.
   A questo punto del conflitto, l’esperienza nelle trincee, fu notevole anche per gli psichiatri, neurologi e psicologi, che mossero dai manicomi per analizzare gli “alienati” – colpiti da nevrosi traumatica da guerra – a seguito di continui bombardamenti, attacchi corpo a corpo e lunghi periodi di trincea a pochi metri dal nemico.
   L’Emilia Romagna fu tra le regioni che portarono avanti degli studi rivolti ai problemi psichici post traumatici; tra Parma e Ferrara sorsero dei centri di sperimentazione per la medicina militare, in cui operarono personalità come Gaetano Boschi, Nando Bennati, Luigi Cappelletti e Corrado Turniati. A dare seguito all’organizzazione del Servizio neurologico sperimentale fu il professor Augusto Tamburini colonnello medico, che nel giugno 1916 fu nominato consulente psichiatrico del ministro della Guerra Morrone.
   Il servizio neurologico fu dislocato nelle varie suddivisioni campali della Sanità militare di tappa e di retrovia. Tra i collaboratori di Tamburini ci fu il professor Arturo Morselli capitano medico, che all’interno della 3a Armata organizzò una struttura con venticinque letti; la sperimentazione proseguì, inoltre, con la creazione dei “Villaggetti psichiatrici” a ridosso del fronte, che si connotarono per alcuni casi di ‘durezza’ nello svolgere le cure mediche a base di elettro shock, con l’applicazione di correnti faradiche anche nelle parti genitali dei soldati, considerati per la maggior parte “simulatori” di sintomi di nevrosi da guerra. Tra i vari personaggi emerse il capitano medico Agostino Gemelli, che fu psicologo consulente del Comando supremo[4].
   Nel portare avanti la sperimentazione, la psichiatria militare tese a scartare i traumi da combattimento, validando maggiormente la tesi legata alla tara ereditaria del soldato, alla sua struttura fisica e, soprattutto, psichica.
   Un altro esempio fu possibile riscontrarlo nell’ospedale decentrato, creato all’interno della villa del “Seminario” di Aguscello (FE); una struttura sanitaria di riserva con duecento posti letto, in cui il professor Gaetano Boschi maggiore medico volle portare avanti sperimentazioni riguardanti soldati colpiti da «nevrosi e psicosi da guerra o da bombe», come fu denominata: una diagnosi diversa da quella praticata per i civili, a cui far afferire gli studi sui soldati. All’interno della struttura sanitaria furono ricoverati, anche il pittore Giorgio De Chirico e i colleghi Carlo Carrà e Filippo De Pisis[5]; un luogo ideale per il riposo e lo svago, utile al recupero della mente degli alienati.
   Nonostante tutto, lo scopo di base del servizio neurologico militare – che ebbe a che fare con circa 40.000 soldati alienati, compresi gli ufficiali – ci fu quello di recuperare soldati da rinviare al fronte, anche per favorire l’eliminazione di soggetti con disturbi mentali, oltre che dissipare propagande disfattiste, portate avanti dagli astensionisti, riemersi a causa delle evidenti difficoltà dello stato della guerra nel territorio italiano nel 1917.
   Come pure, gli studi portati avanti dallo psicologo Giulio Cesare Ferrari, nonché medico psichiatra, fondatore della «Rivista di psicologia», per approfondire la psicologia del soldato italiano, che seguì attraverso osservazioni e lunghe conversazioni con i pazienti militari.
   Del resto fino alla linea demarcata dalla disfatta di Caporetto dell’ottobre 1917, le armate furono formate da una schiera di contadini e operai prelevati dalle loro case e tradotti al fronte per proteggere i confini, contro un nemico più predisposto alla disciplina. Sino allora, la psicologia del soldato non fu tenuta in considerazione dai comandi militari italiani, ancor meno dal Comando supremo; ecco che con la sconfitta di Caporetto emersero, ancora di più, le necessità di organizzare le fanterie sotto un profilo più scientifico, che fu espresso, anche, attraverso una serie di consulenze fatte dagli psicologi ai comandi delle armate, come volute dal nuovo comandante Diaz.
   Egli focalizzò gli sforzi verso un maggiore rispetto del soldato in trincea, bisognoso di maggiori attenzioni, utili a poter offrire un maggiore rendimento nei momenti cruciali. Notevole fu l’incremento addestrativo per forgiare un esercito più disciplinato, capace di sconfiggere i gravi momenti di sacrificio di vite umane, avvertiti già nelle battaglie degli anni precedenti. Ciò fu possibile grazie a un adeguato riposo delle truppe, a un vitto migliore, a maggiori coperture dei trinceramenti, capaci di portare anche miglioramenti psicologici nel fante al fronte, come dimostrarono le battaglie del Piave di fine anno 1917.
   Altri esempi dell’attività psicologica nel periodo del conflitto ci furono in Veneto, con l’ospedale psichiatrico “Sant’Artemio” di Treviso, che fu una sede ospedale militare di riserva della 3a Armata, sotto la responsabilità del medico Luigi Zanon Dal Bò. Durante il periodo bellico, precedente agli eventi di Caporetto, l’ospedale subì un notevole sovraffollamento, causato dalla commistione di pazienti civili e militari giunti dal fronte, che assommarono fino a 1.575 soldati; successivamente fu evacuato presso altre strutture in Bologna, a seguito dell’invasione nemica.

Netley Hospital near Southampton, Hampshire, England (1917)
   Di shell shock – inteso come trauma da sbalordimento – si parlò maggiormente in quel periodo nei confronti di soldati; ovvero di uomini che in molti casi non furono in grado di raccontare ai medici la causa specifica, ma che tutta una serie di concause legate alla vita al fronte fecero scatenare degli impulsi frenastenici, che portarono al ricovero di questi pazienti alienati nei manicomi, istituiti già nel 1904. Durante il periodo della guerra, infatti, si parlò maggiormente di “clinica” e meno di “anatomia patologica”, poiché inizialmente la diagnosi avvenne su cervelli di pazienti post mortem. Un’esperienza formativa di notevole pregio, poiché i medici della mente furono a contatto con i soldati delle trincee e poterono sincerarsi del fatto che le patologie non ebbero origine organica, bensì una natura psicologica.
   Col tempo, verso la metà del Novecento si parlò di “diagnosi di disturbo postraumatico da stress” al riguardo proprio di quel contesto di uomini, nati nell’Ottocento e per la maggior parte contadini e operai, che nelle loro zone di origine conobbero al massimo i fucili e delle liti per i confini delle terre o per il furto di bestiame o per delle accese discussioni in fabbrica o in osteria. Questi si trovarono catapultati nelle trincee al fronte di battaglia, per combattere una guerra moderna, che non permise più le tradizionali grandi manovre di truppe in campo aperto, poiché caratterizzata dai pezzi di artiglieria, ma, soprattutto, dalle mitragliatrici oltre che dallo scontro faccia a faccia con il nemico, unico retaggio del passato. E’ bene, comunque, ricordare come anche gli austro-ungarici fossero terrorizzati dagli attacchi degli italiani, mostrando una certa frustrazione per la tenacia dei fanti italiani, ammirazione per gli atti eroici e impotenza di fronte alla loro decisione di non mollare mai, nemmeno nelle situazioni più disperate[6].
   Tra tutti gli alienati dimessi, ci furono dei casi che riemersero al termine della guerra, sollecitati dall’abuso dell’alcol durante la giornata, molti rimasero “toccati” psicologicamente, mentre alcuni riuscirono con naturalezza ad allontanare i traumi[7].
   Un capitolo importante quello degli alienati, che furono conosciuti dai più come “scemi di guerra”, confermati in circa 5.000 al termine della Grande guerra mondiale; in cui, tra l’altro, i simulatori ‘competerono’ con gli autolesionisti: un popolo di pacifisti che non furono allineati col programma di “rigenerazione della razza”, in voga agli inizi del secolo XX e che proseguì col Ventennio.




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[1] cfr. G. Sargeri, F. Cappellano, L’Esercito austro-ungarico nella Grande Guerra. Un’inedita immagine, in «Rivista Militare», Novembre - Dicembre 2007, p. 93. Nella base logistica del III Corpo d'Armata, il 16 luglio 1917, un ammutinamento nella Brigata “Catanzaro”, fu concluso il giorno successivo con la fucilazione all’alba di sedici fanti del 141° Reggimento e con la morte di altrettanti dodici malcapitati nella rivolta. A Santa Maria la Longa (UD) i famosi ventotto morti dell’ammutinamento, non furono tutti soldati.
[2] Incarto delle Commissioni, disegno 659 proposto da ministro della Guerra, Morrone, ministro dell'Interno, Orlando, ministro del Tesoro, Carcano: "Modificazioni all'ordinamento dell'esercito - Aumento dell'organico dell'arma dei carabinieri Reali" 8.3.1917 - 13.3.1917 , Volume 951.
[3] Nonostante il disastro, Badoglio fu nominato sottocapo di Stato maggiore alle dipendenze del nuovo comandante  supremo Armando Diaz.
[4] In generale M. Rossi, Correnti di guerra, Psichiatria militare e faradizzazione durante la Prima guerra mondiale, Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, Pisa 2017.
[5] D. Bragatto, Quell’ospedale era la culla della metafisica, in «La Nuova Ferrara», 16 novembre 2014, p. 35.
[6] Per maggiori approfondimenti F. Weber, Tappe della disfatta, traduzione dal tedesco di R. Segàla, seconda edizione, Casa Editrice A. Corticelli, Milano 1935. L’autore, inoltre, rimarca come gli alpini furono i veri protagonisti dei combattimenti contro gli austriaci, nell’opera Guerra sulle Alpi, 1915-1918, Mursia, Milano 1995. 
[7] Per maggiori approfondimenti I. La Fata, Follie di guerra. Medici e soldati in un manicomio lontano da fronte (1915-1918), Unicopli, Milano 2014.


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