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23 marzo 2009

Uno Stato nello Stato


Il pontefice della Chiesa cattolica Benedetto XVI, nel suo viaggio in Africa, ha indicato come unica strada efficace quella di un «rinnovo spirituale e umano» nella sessualità. Il papa ha poi detto che la Chiesa in Africa è vicina ai poveri e ai sofferenti, ma non è esente da peccati e deve purificarsi. Rispondendo a chi gli chiedeva se oltre alla quantità fosse necessaria anche la qualità nella presenza cattolica, il papa ha osservato, che anche la Chiesa non è «una società perfetta». Piuttosto che la purificazione delle strutture – ha indicato – occorre «una purificazione dei cuori».
https://farm1.staticflickr.com/95/388914957_9257250de6_b.jpg   Certamente, per la formazione culturale del mondo occidentale contemporaneo, può sembrare difficile calarsi nella realtà dei tempi che furono, eppure la storiografia ha necessità di descrivere i risvolti sociali oltre che teologici del periodo di approfondimento, senza cadere nell’errore, che gli studiosi chiamano “presentismo”, cioè di giudicare il passato secondo gli standard del presente.
   La conversione al Cattolicesimo ha avuto uno sviluppo molto cruento nel Medioevo, del tutto inconcepibile a confronto di quello che la società occidentale fosse abituata a vivere nell’odierno, al punto che la credenza religiosa possa addirittura definirsi una preferenza personale, non più l’aspetto centrale di un’identità personale e collettiva.
   Nell’Era Moderna – Chiesa, eresia, inquisizione – erano considerati come i vertici di un triangolo il cui baricentro era costituito dalla secolare lotta della Chiesa contro tutte quelle forme di devianza, l’insieme degli atteggiamenti e dei pensieri, che si sono allontanati dall’ortodossia cattolica. In ciò ha preso spunto la Congregazione per la Dottrina della Fede, che fu istituita con la Licet ab inizio del 21 luglio 1542, da papa Paolo III Farnese, con il nome di "Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione", con lo scopo di vigilare sulle questioni della fede e di difendere la Chiesa dalle eresie. È quindi la più antica delle congregazioni della curia romana, precedente la riforma della medesima e l’istituzione delle altre 14 congregazioni, fatta da papa Sisto V.
   In Sicilia, terra destinata all’incontro delle religioni, aperta a genti e idee di ogni parte dei tre Continenti che si affacciano sul Mar Mediterraneo, qui e non solo, operò invece l’inquisizione spagnola alle dipendenze del Cosejo de la Suprema y General Inquisición, che fu particolarmente dura e severa, già dal 6 ottobre 1487; quando Ferdinando il Cattolico inviò una “provisione” a tutto il regno di Sicilia, spiegando la necessità di istituire un tribunale inquisitoriale, esortando la nobiltà ad agevolarne i compiti al
Venerabillem religiosum et dilectum nostrum fratrem Antonium De la Peña… con facoltà investigamdi, inquirenti et cognoscendi in dicto Siculo Regno et insuli adiacenti bus de haeresibus et Apostasìae criminibus[1].
   Nello specifico, anche a Ragusa operò una struttura inquisitoriale nel 1575, composta da 18 dipendenti. Persone di tutto rispetto, di alto lignaggio, inserite talvolta in alte cariche civiche, componenti l’organico locale.
   Fu il rapporto tra inquisitori da un lato e i poteri pubblici dall’altro a costituire l’aspetto, sicuramente più importante, dell’attività del Sant’Uffizio nel regno di Sicilia, a partire dalla fine del Cinquecento. La struttura inquisitoriale, inserita efficacemente in un blocco d’ordine politico e sociale ancor prima che religioso, partecipava al controllo di tutte le attività politico-amministrative dell’isola. Attività che erano controllate, contabilmente e centralmente, attraverso una frequente corrispondenza epistolare tra l’inquisitore di stanza in Palermo e gli “officiali” periferici, come emerge da lettere inedite, custodite presso l’Archivio di Stato di Palermo, facenti parte di comunicazioni intercorse, nel biennio 1578/79, tra gli ufficiali della capitale del regno e quelli di Ragusa[2].
   L’Inquisizione di Spagna in Sicilia fu l’organo di controllo sia della Chiesa sia dello stesso vicerè, “uno Stato nello Stato”, entrato a far parte della storia sociale e anche della criminalità. L’organizzazione era infallibile, grazie alla costituzione di veri e propri registri, dei casellari giudiziari ante litteram, che il “reverendissimo”, così denominato l’inquisitore, aggiornava con frequenza. Nello svolgimento dell’istruttoria, dove i familiari potevano deporre solo contro l’accusato, mai a suo favore e le confessioni erano ottenute per mezzo di tortura, ammessa esplicitamente da papa Innocenzo IV nel 1252, con la bolla Ad extirpanda, che riassumeva la necessità della tortura fisica per portare alla luce la verità[3], terminavano con la redazione del verbale di processo, in cui si dichiarava che la confessione fosse resa «spontaneamente e senza l’uso di violenza» e confermata da giuramento. Le sentenze, infine, terminavano con frasi, con le quali gli inquisitori, nel consegnare il condannato alle autorità laiche, raccomandavano di trattarlo benignamente: «Risparmiando, per quanto possibile, la sua vita e il suo corpo», frasi appositamente inserite, anche per evitare di incorrere in irregolarità canoniche.
   Per gli eretici, la cui pena era il rogo, la Chiesa non prevedeva prescrizioni e la morte del reo non estingueva l’azione penale, che pertanto, poteva essere celebrata contro il defunto, i cui resti potevano essere riesumati e «solennemente» bruciati[4].
    Nel periodo della dominazione spagnola, che durò 301 anni, dal 1412 al 1713, può valere per la Sicilia, assai più che per le provincie della terra ferma, lo sfavorevole giudizio che lo Schipa, riferendosi a queste ultime, dette del regno del primo Borbone:
Alla partenza di Carlo, la società dell’isola appariva ancora quale già appare a Vittorio Amedeo II nel 1713, con gli stessi vizi in alto, con la stessa miseria e abiezione brutalità in basso, carica di tributi, inceppata in ogni sorta di libertà e senza alcuna aspirazione a un domani diverso dal presente[5].
   Con l’accrescere della potenza dell’Inquisizione: qualificata una struttura “parastatale”, un’organizzazione in grado di contendere sia con le alte autorità ecclesiastiche, sia con lo Stato, definita «l’organizzazione più cospicua… una specie di mafia ante litteram»[6] si arrivò al punto di ascrivere la corruttela dei giudici, nei libri paga dei notabili, a causa della ferocia dell’uso indiscriminato della tortura e della parzialità di giudizio, dove la calunnia e le false testimonianze erano comunissime. Si parlò di una naturale decadenza dell’Inquisizione in Sicilia, dato che già dall’Ottobre del 1732 non si erano più visti dei roghi ed in mezzo ai più disparati giudizi, appare evidente quanto fosse difficile assodare la verità storica e mantenere inalterata l’obiettività.
   Alcune testimonianze hanno lasciato i commenti del momento e come indicato da lord Brydone nel 1770, che vedeva ancora un’aria guardinga assunta dalla gente, ascoltando un forestiero parlare spregiudicatamente di cose religiose e la raccomandazione che gli fosse rivolta, di “essere più cauto in tali discorsi”; come pure nel 1777 lo straniero visitatore conte de Borch constatava come in Sicilia:
Toutes les croyances respectent son pouvoir, et la crainte n’entre puor rien dans les égards qu’on a pour ses décisions.
   Erano convinti della profonda verità del principio del Sant’Uffizio. Oppure come successivamente molti stranieri non abbandonarono la Sicilia, ultima tappa o meta unica dei loro viaggi nella nostra penisola. Ma le cose stavano iniziando a cambiare e l’ostilità verso il clero, con la direzione del vecchio Tanucci e poi col marchese Della Sambuca, si rappresentò già con l’espulsione dei Gesuiti nel 1767 e l’incameramento dei loro beni, riforme che già nell’Europa progredita avevano scalzato istituti medievali superstiti; seppure gli isolani vincolati da antiche clientele e assopiti sotto il giogo dei baroni, non sapessero muoversi se non sotto l’impulso di fattori tutt’altro che ideali. 
   Si arrivò infine al termine dell’azione del Tribunale dell’Inquisizione, col decreto di abolizione del 16 marzo 1782 del vicerè Domenico Caracciolo, nell’ambito del programma di governo, ch’egli avesse nell’animo di esplicare nell’isola: volontà imperiosa d’essere ubbidito, senso del dovere e della disciplina in tutta la burocrazia statale, convinzione che bisognasse romperla col passato e incamminarsi per nuove vie, attuabile grazie alla personale manière originale de voir et d’exprimer les choses; mentre per i documenti custoditi nell’Archivio palermitano del Sant’Uffizio avvenne un falò il 27 giugno 1783[7]. Un colpo di piccone contro quell’ibrido complesso d’istituti e di sentimenti, che prolungavano il Medioevo nell’isola, ancora sul volgere dell’agitato XVIII secolo, che con la Rivoluzione francese chiudeva l’Era Moderna nel 1789.
   Eppure il reverendissimo monsignor Ventimiglia Archevêque de Nicomedie ultimo inquisitore, i vescovi siciliani, il Senato di Palermo, richiesero a Ferdinando IV che il secolare istituto fosse conservato, non soltanto perché:
Con la sua soppressione si toglieva la sussistenza a tante famiglie, che vivono con le cariche al medesimo addette ‒ ma anche perché costituiva ‒ un freno alla corruttela del costume e ala falsa dottrina[8].
   Dai membri delle Cortes de España la caduta della Inquisizione in Sicilia fu indicata come: «La victoria de la malignidad junta con el poder»[9].
   Alla cerimonia intervennero le supreme magistrature e la nobiltà del Regno, nonché ecclesiastici tra cui lo stesso arcivescovo e i più alti dignitari del clero palermitano, oltre ad uno straordinario concorso di popolo che invase le vie di Palermo[10].




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[1] A. Franchina, Breve rapporto del Tribunale della Ss. Inquisizione di Sicilia, Palermo, Epiro, 1774, Cap. XIV, p. 110.
[2] Per ulteriori approfondimenti cfr. G. Nativo, Inquisizione, questa sconosciuta. Approccio ad una esplorazione documentaria. Sancta Inquisición de Ragusa, Modica, La Biblioteca di Babele Edizioni, 2005.
[3] M. Lemonnier, Storia della Chiesa, Vicenza, Ed. Ist. S. Gaetano di Vicenza, 1961, p. 269.
[4] C. Reviglio Della Veneria, Novissimo Digesto Italiano, III ed., vol. XIX, Torino, Utet, 1957, p. 722.
[5] M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo Borbone, vol. II, S.l., BN factoring, 1988, p. 288 et passim; per approfondimenti cfr. G. Aliberti, Michelangelo Schipa e la storiografia dei valori. Storici italiani tra l’Otto e il Novecento, Roma, Nuova Cultura, 2007.
[6] V. Titone, Storia, mafia e costume in Sicilia, Milano, Edizioni del Milione, 1964, p. 227.
[7] V. Sciuti Russi, La supresión del Santo Officio de Sicilia, in «Rivista de la Inquisición», 1998, p. 309 et passim; approfondimenti minuziosi in V. La Mantia, Origine e vicende dell’Inquisizione in Sicilia, in «Rivista storica italiana», vol. III, 1886, ristampata in L'Inquisizione in Sicilia: serie dei rilasciati al braccio secolare, 1487-1732. Documenti su l'abolizione dell'Inquisizione, 1782, Palermo: Tip. A. Giannitrapani, 1904.
[8] Archivio di Stato di Palermo, Real Segreteria, Dispacci, reg. 1532, f. 123 e Decreto di soppressione del S. Ufficio.
[9] V. La Mantia, L'Inquisizione in Sicilia: serie dei rilasciati al braccio secolare, 1487-1732, cit., p. 682.
[10] In generale cfr. E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del ‘700 e ‘800. Saggi storici, Napoli, E.S.I., 1965.

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